Chiesa Santi Marcellino e Festo Napoli

È la chiesa di San Marcellino e Festo a Napoli1(1bis), orientata nord-sud per la costruzione smisurata dell'unico suo chiostro secentesco che ne inglobò anche quello del Cinquecento.

Per quanto riguarda il chiostro questo è ambiente all'aperto ex conventuale, ex claustrale, frequentato per ragioni accademiche dal 1992 dagli studenti iscritti al, DI.S.T.A.R., Dipartimento di Scienze della Terra, dell'Ambiente e delle Risorse, afferente l'Università degli Studi di Napoli, Federico II che ne insedia i locali dell'ex monastero adattato ad aule per le lezioni.

E' detta dirimpettaia della chiesa dei Santi Severino e Sossio2 che, per spezzarne contiguità da quest'ultima, fu fatta anticipare da un atrio con campate coperte da volte a vela, simile in tutto e per tutto all'atrio della chiesa di San Gregorio Armeno a Spaccanapoli3.

Tiene la facciata a vista sul lato destro del Largo di San Marcellino sulla collinetta del Monterone, ed a capo delle Rampe di San Marcellino, facciata, che per linguaggio d'ordine architettonico, è collegata a quella della chiesa del Carmine al Mercato4.

Fu restaurata in maniera conclusiva l'ultima volta da Luigi Vanvitelli, dal 1759 al 1768, compito affidatogli dalle monache benedettine, e che il maestro condividerà con Antonio Di Lucca e Domenico Tucci, figlio di Carlo, assieme ai quali disegnerà le bozze per il secondo chiostro del monastero che oggi, è una delle sedi universitarie di Napoli, inglobata dal 1935 alla sede centrale sul Rettifilo.

La sua storia è tracciata da ricche precisazioni tali da rendere perfette le distinzioni che consentono di identificarla diversamente configurata nel tempo da diversi maestri dell'architettura, da Gian Giacomo di Conforto, al Dionisio Lazzari, dal Lazzi a Mario Gioffredo ed infine Luigi Vanvitelli. Le guide storiche della città quelle antiche e tardo antiche la attribuiscono a Pietro D'Apuzzo, direttore del cantiere aperto nel 1626, sarebbe stato chiuso per termine dei lavori nel 1633 su progetto di Gian Giacomo di Conforto, presente sul posto in qualità di architetto dell'annesso monastero. Per quanto riguarda la paternità del progetto di Gian Giacomo di Conforto sulla costruzione di questa chiesa non è mai stata confortata da documentazione esplicita, ma la sua straordinaria soluzione di insieme tipico dell'architettura dimensionale gesuitica, ovvero, la doppia parasta a sostegno dei pilastri tra una cappella e l'altra, l'avvicina ineguagliabile alla medesima sistemazione architettonica degli spazi data proprio dal Conforto ad altre due sue chiese: Santa Teresa agli Studi alla Stella e Sant'Agostino degli Scalzi a Materdei.


È stata consacrata due volte come sempre accadeva in quegli anni. 

Una prima volta fu benedetta quando ancora veniva costruita (1633) ed una seconda volta quando fu presumibilmente terminata la cupola (1645) e quindi consegnata all'ufficio del culto.

  • La cupola è rivestita di riggiole maiolicate come accaduto anche per le cupole delle chiese vicine, Santa Maria di Donnaromita, San Pietro Martire a Fusariello e San Gregorio Armeno. Il rivestimento delle cupole è certa opera di Vincenzo della Monica come solo applicatore, ma è presumibile si sia attenuto ai disegni di Gian Giacomo di Conforto, pur tenendo conto nella sopraggiunta epoca degli studi che al rivestimento della cupola si son sopraffatte le mani di altri restauratori, uno di questi fu Ignazio Chiaiese (1762) e presente ai lavori di ammodernamento della chiesa diretti da Carlo Vanvitelli e lo stesso Chiaiese, ivi fino al 1772, compone anche il pavimento del coro superiore della chiesa sempre in riggiole maiolicate5.Belisario Corenzio, tra il 1630 ed il 1640, provvederà a coprire i pennacchi della cupola, i pennacchi e gli archi della cupola affrescando Santi e Storie della vita di San Benedetto, restaurati brillantemente l'ultima volta agli inizi del Settecento da parte di Nicolò De Simone. Mentre invece, è di Massimo Stanzione, data 1633, il contenuto delle tele che occupano la controsoffittatura. La chiesa subì un ammodernamento durante la fase barocca del Seicento secolo al quale risale l'intervento posto in opera da Dionisio Lazzari, autore della squisitissima apparecchiatura in marmo realizzata per l'altare della cappella San Benedetto a sinistra della tribuna e lo stesso altar maggiore che non è quello oggi esistente, sparito, alcune voci dicono che sia quello del duomo di Sorento. Questo di oggi sembrerebbe esser l'altare maggiore della chiesa scomparsa di San Luigi di Palazzo, la chiesa che esistette per molti anni nel posto dove oggi sorge il palazzo della Prefettura a piazza Plebiscito. Questo altare quindi oggi è impreziosito da nicchie che ospitano le statue dei Santi Festo e Marcellino, del Vaccaro padre, e della tela di Luigi Garzi, ritraente, una ”Visitazione”. Esistono due mandati di pagamenti negli archivi storici che raccontano le due diverse fasi di questa procedura. La prima fase prevedeva lo spostamento proprio fisico dell'altare dal posto dove si trovare per piantarlo ad isola e lasciare così spazio nel muro da dove sarebbe stato staccato per provvedere ad altri due confessionali oltre allo spazio necessario per un tabernacolo. Ma così non fu. Dionisio Lazzari sembrerebbe lasciare tutto così com'è ed anzi provvederà semmai ad arricchire l'apparato lasciando intatta persino la composizione della parete fungendola da ancona. Del Lazzari è anche la sistemazione dunque secentesca del dormitorio, della terza cappella a sinistra, del comunichino e della sua cornice1. Giovan Battista Manni durante una delle stagioni del primo ventennio del Settecento avvia un'opera di restauro tra le più ricordate dalla ricerca universitaria, con lavori che si concentreranno principalmente sulle opere della controsoffittatura, i chiari segni dell'acqua infiltrata nel sottomanto della cupola e ad altre parti della struttura, e tra gli impegni, anche quello di ristrutturare il corollario delle case basse, i vasci che girano attorno al perimetro del Gesù Vecchio, e sul vico San Marcellino, realizzando sul posto, per la prima volta nella storia di questo comparto urbano, le famosissime Rampe del Salvatore, attive fino al 1875, allorquando furono chiuse all'uso pubblico da quando si iniziò a prospettare l'occupazione di suolo sotto il collegio del Salvatore della nascente sede centrale dell'Università di Napoli. La rampa del Salvatore fu il motivo contestuale per cui i due monasteri, quello di San Marcellino e quello del Gesù Vecchio vennero gradualmente a separarsi l'uno dall'altro6.

E’ questa la chiesa napoletana custode del quadro Madonna con Bambino ed Angeli.

Opera più vicina alla scuola di Andrea da Salerno oltre che somigliante per certi versi di composizione alla Madonna del Melograno di Raffello Sanzio all’Accademia Albertina di Vienna.

  • Ma i numerosi punti di contatto per l’identità dello schema di elaborazione e la ripetizione di alcuni particolari lo accostano meglio alla Vergine ed Angeli del Polittico del Battesimo al museo della Badia di Cava de’Tirreni, il paese da cui, per altro provenne l’esperto maestro di muro con funzioni di ingegnere ed architetto, Giovan Vincenzo della Monica, venuto a convenzione con la badessa di San Marcellino nel 1567 per il restauro dell’elegante chiostro dai lunghi terrazzi a belvedere oggi sede di alcuni istituti universitari di Napoli. La chiesa si presenta con una facciata che ancora detta la tradizione peculiare del Cinquecento; gli elementi architettonici tipici del barocco di Conforto sono sopraffatti dalle innovazioni apportate da Luigi Vanvitelli, il quale per coronare il lusso e lo sfarzo dei marmi alabastri aggiunse, modificandone l’aspetto originario, i capitelli corinzi sull’ordine jonico; il cosiddetto doppio ordine delle lesene. Le tre finestre lunghe ed il tondo del timpano richiamano, sebbene con alcune varianti, la composizione della chiesa di Regina Coeli e Santa Maria La Nova ai Banchi Nuovi. Alla ricostruzione secentesca della chiesa appartengono la facciata, l’atrio spartito da quattro colonne, il portale sull’ingresso, la porta lignea del comunichino, i due cappelloni della crociera e la stupenda cona marmorea dell’altar maggiore che fa da sfondo al presbiterio e che nei documenti è chiamata macchina dell’altare maggiore, opera del maestro Dionisio Lazzari ed infine le statue dei santi Marcellino e Festo. La cupola e la crociera vennero affrescate da Belisario Corenzio, seguace del Tintoretto per maniera e precursore di Luca Giordano per fecondità di opere. La cupola di questa chiesa è spartita in otto spicchi con finti pilastri scanalati, su cui corre un cornicione che la separa in due piani, nell’inferiore messe otto coppie di santi e al secondo piano, con analogo scorcio di sapore propriamente magnatesco e con superiore bellezza, è stata montata la scenografia di un finto balcone da cui affacciano una teoria di angeli musicanti. E nei pennacchi della cupola 12 santi compatroni della città dipinti dallo stesso autore. Una bellissima curiosità l’apporta ancora Franco Strazzullo, il quale sospetta giustamente che le figure centrali di cui si parlava poc’anzi siano state aggiunte dopo dal Volpe in un’ occasione di restauro datata dopo l’intervento pittorico del Corenzio. E se ne accorge perchè in fondo è vero che san Gaetano da Thiene ritratto a quell’epoca non era ancora stato canonizzato e lo conferma il fatto che il Belisario dipinse nei soprarchi della chiesa di Santa Maria della Sapienza la figura di Andrea da Avellino ancora beato, ed altre opere analoghe in Santa Maria di Costantinopoli al Museo sull’omonima via. I sei quadri dipinti per il soffitto ed il quadro della Madonna del Rosario tra le Sante Felicita e Perpetua sono opere di Massimo Stanzione, mentre è attribuita a Battistello Caracciolo la tela di San Vito. Di Giuseppe Sammartino sono i due angioletti sotto la mensa dell’altare di San Benedetto.
La chiesa di San Marcellino a partire dai lavori di ammodernamento di Vanvitelli. 

Il maestro si fece aiutare da Antonio di Lucca e da Mimmo Tucci, il figlio di Carlo, ereditandola dai lavori effettuati dal Pallante, Vecchione e quel pasticcione di Mario Gioffredo. 

  • I lavori intrapresi dal maestro Vanvitelli per l'ammodernamento della chiesa ebbero come altro proposito quello di riparare a quanto fatto mancare dal gruppo che lo ha preceduto; infatti la messa in opera del gruppo di Mario Gioffredo nacque invero dalla necessità di consolidare parte della cupola afflitta dalle infiltrazioni d'acqua ma finirono come sempre in questi casi di concentrarsi su altri elementi strutturali come per esempio, la tribuna e le ancone dei due cappelloni di destra e di sinistra, quello dedicato a San Benedetto e quello invece del comunichino delle monache. Ma ad intervento di Luigi Vanvitelli nel cappellone San Benedetto interviene sia nella parete di conca sia sull'altare stesso della Cappella, caratterizzato dallo svuotamento del paliotto e più tardi impreziosito da ” Due angeli che sostengono lo scudo con la croce”, di Giuseppe Sanmartino, autore del Cristo Velato alla Cappella Sansevero. Mentre nella cappella del comunichino delle monache sull'altare verrà installata la tela di Francesco De Mura ritraente, L'Apparizione della Vergine col Bambino a San Benedetto”. Della cappella San Benedetto esiste oggi un documento datato 1759 firmato Luigi Vanvitelli e che mostra evidente l'intenzione del maestro di giocare con le volute d'altare per realizzare i gradini del dossale di modo che si possa appena accennare all'idea dello scudo centrale e favorire invece più attenzione alle definizioni architettoniche disegnate proprio per il tabernacolo e per il capoaltare. Medesima apparecchiatura anche per il cappellone che sta sul lato opposto, oggi sormontato dalla tela di Starace, ritraente la Cena in casa di Simone. Ovviamente il maestro Vanvitelli per sua attitudine amplia l'idea stessa di grandezza della chiesa servendosi di un apparato di lastre di marmi detti a ”macchia”, e con materiale proveniente dall'alabastro venato ottiene coppie di paraste con cui riveste i pilastri, ai quali, non fa mancare all'apice i capitelli di stucco. Ma per ingrandire ancor di più il lavoro che compie per correggere le mancanze secentesche si occupa lui personalmente di ottenere l'impasto per i colori rosa, verde antico, il bardiglio, il Giallo di Siena, lo stesso alabastro ed il marmo di Seravezza e comporre in magniloquenza i nuovi portali che verranno addossati a quelli del Seicento. In verità Vanvitelli trova la chiesa sistemata secondo quella che fu prima di lui il ritmo dell'impaginazione secondo lo stile del barocco dell'epoca di Giangiacomo di Conforto e quel che fu il barocco dell'epoca di Dionisio Lazzari subito successivo, e lascia tutto così com'è possibile osservare, insinuandosi solo sul primo registro con un gioco di ricorrenze e linearità assegnate all'impaginato e quindi reinterpreta le già preesistenti trabeazioni che mettono in collegamento il fianco destro della chiesa col suo monastero e quello sinistro col corpo di fabbrica sviluppato sulle Rampe di San Marcellino. Forse memore di quanto già impresso per il passaggio che dal vestibolo porta al chiostro di Santa Maria degli Angeli in Roma o per i portali della Cappella Palatina alla Reggia di Caserta, qui in questa sede, Vanvitelli inserisce festoni sui portali trabeati che si prolungano dai due girali; di forma ellittica, i festoni convivono in una specchiatura conclusa con voluta a dorso di bruco. Suoi sono i disegni progettuali per le gelosie dei coretti sulla navata, e la grata del coro delle monache che fu intagliata da Francesco di Fiore tra il 1766 ed il 1768 ed anche le stesse grate del coretto sulla tribuna realizzate nel 1761 da Giuseppe D'Ambrosio.


Spazio note

(1) Liberamente estratto da: La *chiesa universitaria dei SS. Marcellino e Festo / Franco Strazzullo. - Napoli : [s.n.], 1966 (Napoli : L'Arte Tipografica). - 46 p., [8] c. di tav. : ill. ; 25 cm. ((Estr. da: Archivio Storico per le Province Napoletane, nuova serie, vol. 35., (1955). E da: Il *monastero e la chiesa dei SS. Marcellino e Festo : documenti inediti / Franco Strazzullo Archivio storico per le province napoletane , A. 74 (1955), p. 433-469  [BNN Fondo San Martino, ms 184 Descrizione di tutti i luoghi pii di Napoli]  [Scrive Franco Strazzullo a questo proposito: Due cappelloni nella crociera e tre cappelle per lato nella nave. Tra arco ed arco, particolare del Conforto, si alzano due paraste, scalanate nella chiesa di Sant'Agostino e rivestite di marmo in San Marcellino [Costitutiones, admonitiones, et decreta diocesanae synodi neapolitanae in relazione ad una citazione a sua volta estratta da una raccolta di atti di quel sinodo, Synodi Neapolitanae ab anno 1565 ad annum 1680 Esemplare custodito alla Biblioteca del Seminario Maggiore di Napoli]  [Volendo anche dar retta ad una notizia che vorrebbe il monastero di San Festo soppresso nel 1564 per conto di : Chronica del monistero di S, Gregorio Armeno in Napoli, scritta da donna Fulvia Caracciolo pubblicata da Raffaele M. Zito in la scienza e la Fede Napoli 1851, XII, pagg 300 e segg.]  [*Topografia della citta di Napoli nell'11. Secolo / Bartolommeo Capasso. - Rist. anast. - Sala Bolognese : A. Forni, stampa 1984. - 1 v. : ill. ; 22 cm. ((Rist. anastatica dell'ed.: Napoli, 1895.] 
 (1bis) Erroneamente affidata alla mano di Fra' Nuvolo la chiesa sarebbe del Conforto. Piuttosto la contrapposizione dell’ordine ionico al dorico sulla facciata, l’impostazione delle finestre tra le lesene, l’alternarsi dei timpani e di valori chiaroscurali dell’architettura così com’è impostata hanno indotto Franco Strazzullo3 a riconoscere una certa parentela almeno spirituale con l’autore del campanile della chiesa del Carmine Maggiore a piazza Mercato. Ma laddove il disegno stesso si fa più armonioso la somiglianza sta invece nell’architettura della chiesa degli Agostiniani a Materdei, fatto per cui si lasciò perdere sia d’Apuzzo che fra’ Nuvolo e se ne attribuì il disegno medesimo a Giovan Giacomo di Conforto, almeno per la ripetizione dello schema di facciata che quest’architetto conferì sia per la chiesa di Santa Teresa agli Scalzi sull’omonima via, sia alla chiesa gesuitica di San Ferdinando di Palazzo a piazza Trieste e Trento. In un documento preparato dal Chioccarelli e che il Parascandalo ritiene tra l’altro un apocrifo, datato 1643 si deduce che il monastero nella seconda metà del VIII secolo fosse stato già fiorente al punto che la sua prosperità permettesse addirittura una datazione ancora antecedente al 763 d.C., e che il suo titolo in origine fosse “chiesa e monastero dei Santi Marcellino e Pietro”. L’aggiunta del nome Pietro la si legge nel cosiddetto catalogo Bianchiniano; il primo dei due fu un prete ed il secondo un esorcista, tutti e due martiri. Nella seconda metà dello stesso secolo, Stefano II eletto vescovo di Napoli nel 767, a qualche metro di distanza del monastero di San Marcellino fonda il monastero sacro a San Festo, Basiliano il primo, Benedettino il secondo. I due monasteri, tempo dopo il sinodo diocesano del 1565, diretto dal cardinal Alfonso Carafa4 amministratore apostolico della città del viceregno, in animo di voler da subito eseguire le direttive estratte dal Concilio di Trento5, sopprimendo l’uno e incorporandolo all’altro li fonde assieme tutti e due come testimoniato anche dalla Topografia del Capasso6, alla data del 26 marzo del 1566 con motu proprio del sommo pontefice Pio V copia della quale si conserva ancor oggi al fondo Monasteri Soppressi Archivio di Stato di Napoli al Monastero dei Santi Severino e Sossio.
 (2) Estratto dal documento di ricerca del professor Giancarlo Alisio relativo al rintraccio della sede delle origini tra quelle esistenti delle università di Napoli. E per esso, il riferimento per questa scheda è ai lavori di Gaetana Cantone, qui riportati: G. CANTONE, Intorno a San Marcellino. L'architettura della trasformazione a Napoli dal Cinque al Settecento, in Il complesso di San Marcellino. Storia e restauro, a cura di A. Fratta, Napoli 2000, pp. 19-55. 
 (3) Come ricordato sull'intesa dei due progettisti di chiesa, Gian Giacomo di Conforto e Gian Battista Cavagna, la costruzione dell'atrio della chiesa di San Festo ebbe inizio, riferisce la ricercatrice, molto dopo il 1574, anno in cui, è più che sicuro che fu già costruito quello di San Gregorio Armeno al quale si ispira con tutta l'evidenza del caso e che secondo le dichiarazioni di Mario Napoli quello di San Gregorio è spiegabile col fatto che sul posto dovette esservi stato l'ingresso ad un tempio greco. Cfr. M. NAPOLI, Napoli greco-romana, Napoli 1959; E. GABRICI, Contributo archeologico alla topografia di Napoli e della Campania, in "Memorie dell'Accademia dei Lincei, XLI (1951); R. PANE, Il monastero napoletano di S. Gregorio Armeno, Napoli 1957. Mentre quello di San Festo servì piuttosto ad isolarlo dalla contiguità sul posto rappresentato e dalla chiesa di San Severino ma anche da tutte le altre case intorno. Seppur detto che comunque questa analogia oggi è meno evidente del passato poiché l'atrio di San Festo ha però subito nel periodo barocco un lavoro di ammodernamento. L'atrio di San Festo mostra un'estetica rappresentazione si spazio secentesco in un qualche modo deturpato da elementi settecenteschi, ed ovvero quattro impensabili colonne di marmo perfettamente distinguibili dai pilastri a fasce bugnate che scandiscono le campate. Queste colonne di marmo che finiscono in capitelli chiaramente di stile tardo barocco, sono visibilmente più alte delle paraste che impaginano le pareti laterali, e dunque i capitelli in marmo non sono affatto allineati a quelli in piperno.
 (4) La questione della facciata della chiesa di San Festo collegata per sovrapposizione di stili diversi va ascritta al periodo artistico caratterizzato dalla transizione al barocco nonostante la perdurante presenza degli elementi propri del classicismo. Ed ancora per l'improvvisa mutazione degli elementi di coronamento ed infine per questa faccenda del rivestimento di riggiole maiolicate anche del cuspide. Nel caso di San Festo la facciata è motivata dallo stile dorico al primo registro e dallo ionico con festoni al secondo. Ed infine la ridotta dimensione dell'alzato permette di apprezzare l'eleganza del fregio di stile dorico del primo registro, e di modelli provenienti dal Cinquecento per la movenza alterna dei timpani nel secondo registro.
 (5) 1777. A. S. N., Mon. sopp., fasc. 2816, fol. 110 v., ricerca di Antonio Sauro
 (6) L'attribuzione al Lazzari fu documentata dal D'Addosio con le note di pagamento del 3 settembre 1666, del 25 giugno 1667 e del 18 aprile 1670, G. B. D'ADDOSIO, Documenti inediti di artisti napoletani del XVI e del XVII secolo, in A.S.P.N., vol. 38 (1913), p. 363.