Castel dell’Ovo Napoli

È il più antico dei castelli della città di Napoli1(1bis), detto Castel dell’Ovo2, meridionalistica espressione dal provenzale medievale Chateau de l’Oeuf.

E' una delle più significative tra le sedi antiche del centro storico della città, per quanto possa esser stato riportato all’uso spagnolo di fortificazione massiccia posta a difesa del tratto romano dell’insenatura dì costa del golfo di Napoli.

Custodisce in esso tre chiese, due di queste, la chiesa di San Pietro e la chiesa del Santo Salvatore sono state definite e localizzate in punti esatti del castello.

Mentre la terza chiesa, la chiesa di San Sebastiano, irrintracciabile è spesso stata individuata al di sotto della Sala delle Colonne anche detta sala ipostila.

Castel dell'ovo, sulla base delle definizioni dei testi che raccontano il primo capitolo dell’Ordine della Nave, come l’enchanté du merveilleux3 è riconosciuto esser il cuore fondativo del borgo Marinari e, questo, a sua volta è l’epilogo del valore storico ed architettonico della versione moderna del Borgo Santa Lucia al Mare.

Assieme al Maschio Angioino a piazza Municipio, e a Castel Capuano alla Vicaria Vecchia, rientra nella più vasta area di progettazione estetica del panorama partenopeo all’indomani dell’apertura e del collaudo finale di Via Partenope, tratto intermedio del Lungomare napoletano.


Strettamente connesso al suo recupero statico e materico ogni volta se ne crea una diversa destinazione d’uso.

In un contesto ambientale irrimediabilmente mutato rispetto alle sue origini. Per il suo altissimo valore storico è divenuto un emblema del Golfo di Napoli.

  • La sua forma come una naturalissima conclusione a mare del fronte collinare di Pizzofalcone, mentre invece, il suo circondario terrestre contestualizza lo scenario pubblico di notevole pregio architettonico per la presenza della veste immobiliare Liberty dei grandi alberghi: il Santa Lucia, il Continental, ed il Grandhotel Vesuvio. Il suo fianco ad ovest è quasi del tutto artificiale, poiché, la potenza avversa delle mareggiate nel corso dei secoli ha praticamente reso impossibile il mantenimento in buon stato della roccia di fondazione, condizione che invece fino ad oggi si è mantenuta in ottimo stato di conservazione sul fianco opposto, quello che guarda nella direzione della zona orientale, le paludi e parte del sistema Somma-Vesuvio.

Al suo interno, l’aspetto rimane di stampo altomedievale, unico e raro in tutto il meridione d’Italia.

È poco noto col toponimo di Arca del Santo Salvatore, nome questo giustificato per esser stata la sua struttura primitiva abitata da un cenobio di monaci basiliani4

  • Fondatori della chiesa dedicata all’apostolo Pietro e ricavata dal romitorio di Santa Patrizia, fondatori anche della Chiesa del Santo Salvatore5(6). Più storicamente, i monaci basiliani è detto, sfruttarono le cavità del Castello come riparo alle scorribande dei sarracini, i quali, com’è noto agitarono lungo il IV e V secolo dopo Cristo, le acque del Golfo di Napoli, dalle quali il castello per sua stessa fondazione sembra emergerne. Mentre la sua strana denominazione, Castel dell’Ovo, sarebbe da riferire in prima ipotesi alla errata percezione duecentesca della forma ovoidale dell’isolotto sul quale è stato fondato, Megaride, oggi il moderno Borgo dei Marinari, ed in seconda ipotesi, dalla leggenda dell’Uovo Incantato, che, chiuso in una teca all’interno di un’irraggiungibile stanza nella pancia del castello, avrebbe il solo scopo di proteggerlo dalle calamità legate all’attività del mare e che il Castello, va aggiunto, non debba sopravvivere alla distruzione dell’Uovo stesso. La leggenda è di chiara fioritura medievale strettamente legata alla versione diffusa dal poeta Virgilio7. Il Castello si presenta sotto forma di aggregazioni di più costruzioni ad una e due piani, disposti sul fianco di una rampa che corre centrale al monumento, snodandosi al di sopra di un banco tufaceo su cui poggiano tutte quante le strutture che lo compongono; l’altezza, compreso il banco tufaceo, varia tra i 15 e 30 metri dal livello delle acque, e la sua larghezza non è superiore ai 40 metri; mentre la lunghezza dell’ammasso di tufo su cui poggiano tutte le fondazioni, orientata in direzione nord-sud, è impraticabile per effetto di una profonda frattura che, di fatto, pochi sono a conoscenza, divide praticamente in due l’isolotto, spezzato all’indomani del disastroso maremoto del 1350 e da quell’evento, perfettamente giunte intatte fino all’era moderna, se ne ottennero strutture robustissime, pensate e realizzate a volte e ad archi, proprio per sopperire all’esigenza di continuare la longitudinalità del blocco di tufo.

La Rampa del Castello.

Il castello vero e proprio sta a 30 metri d’altezza rispetto al livello della strada di Via Chiatamone

  • E lo si raggiunge attraverso la comoda rampa gradinata fatta lastricare sul suo fianco sinistro; questa stessa rampa deve considerarsi senza alcuna esitazione l’elemento unificante del complesso degli edifici di Castel dell’Ovo. Si legge sul testo: essa è l’elemento spina che ha praticamente definito da un punto di vista planimetrico la realizzazione di tutto quanto il castello. Inizia in lieve pendenza sul fianco a sinistra dell’attuale ingresso e prosegue in gradinata ” … sostenuta da un’amplissima volta a botte a tutto sesto e decorata da un robusto arco in regolari conci di pietra vulcanica”. La rampa, larga 5 metri dalla base dell’isolotto sale per il fianco del Castello e nel punto di massima esposizione al mare si immette in un portale, che, definisce, questo punto, a 12 metri dal livello delle acque, il punto più basso delle costruzioni, punto ancora una volta, aperto verso il mare a sud e costituente il primo piano del castello. Il portale in cui va ad immettersi è appartenuto da sempre alla Torre Normandia, unico elemento superstite dell’impianto di difesa costituito dalle originarie quattro torri del Castello; da questo piano poi la rampa, inverte il senso di ascensione e prosegue verso la parte più alta del castello, superando il nucleo centrale che è un suggestivo oltre che pittoresco luogo dalle fattezze medievali, incantato dalla maestria della conservazione tipica del suo secolo e sotto il quale, si nascondono egregiamente le prigioni del castello ed i locali usati per lo stipo delle merci, e più inverosimilmente anche, la stanza impossibile da raggiungere che ospita il famoso uovo della tradizione virgiliana che dà il nome al castello. La rampa che prosegue il viaggio verso l’apice, mantiene costante il livello di pendenza, non ugualmente per l’asse che invece è centrale rispetto alla dimensione trasversale del Castello, ma che a mano a mano che raggiunge il punto più alto ripiega dolcemente a nord est, determinando quindi, uno spazio a nord ovest a ridosso della Torre di Mezzo, oggi scomparsa, e alla quale, con i secoli si sono costruite fortificazioni a carattere militare. Infine sul punto più alto del Castello la rampa termina su di una terrazza configurata a bastione, dalla quale, oggi si ammira il versante delle colline con Castel Sant’Elmo, la Certosa, le vigne che arrancano il versante delle Celse, il Poggio delle Mortelle, l’impianto della Nunziatella, l’apice di Pizzofalcone, la discesa dal monte del Pallonetto ed infine la distesa terra della provincia di Napoli schermata sullo sfondo dalla possente mole del Vesuvio. La terrazza ancora mostra quasi intatte le bocche di lupo dalle quali, ancora fuoriescono le punte dei cannoni lasciati piazzati a mo’ di artiglieria, una scenografia che consente di concepire a vivo il sistema di difesa per quanto primitivo come potesse esser allo stesso tempo aggressivo e distruttivo. Dalla terrazza un sistema di scale e scalini immettono ai reparti architettonicamente irrilevanti per il complesso.

Storia di Castel dell’Ovo

L’isolotto su cui prende forma il castello porta con sé oltre alla denominazione romana di megaris anche quella di castrum lucullanum, dal nome dell’antica villa di riposo del generale romano, Lucio Licinio Lucullo.

  • Propriamente detta, la villa fu poi localizzata dal Parascandalo, dal Galante e dal Capasso sulla sommità del Monte Echia, oggi Pizzofalcone, e solo in seguito e da recenti studi fu più semplicemente fatta coincidere con la stessa area fortificata attorno al castello. Tuttavia, la sola forma di castello attrezzato ed armato all’suo di una vera e propria fortezza a mare fu assunta durante l’insediamento normanno della città, tempi in cui, gli stessi monaci abitatori del castello lo abbandonarono in luogo della sopraggiunta forza militare ed in seguito alla quale, fu eretta e la Torre Normandia, unico elemento superstite assieme a poche parti della Torre di Mezzo del relativo assetto architettonico dell’edificio delle origini. Con l’arrivo dei re d’Angiò il castello fu usato come sede d’archivio del tesoro regio in forza della qual funzione se ne continuò l’ampliamento, la riparazione ed i miglioramenti iniziati in epoca sveva; più in particolare per il periodo di regno di Carlo I d’Angiò gli emendamenti raccontano di un armamento del castello massiccio durato tutto il biennio 1278-1280, mentre le successive riparazioni che si dice messe a progetto durante la capitania di Radulfo d’Iquilont ebbero effetto esecutivo sotto la direzione di Pierre de Chaul, l’architetto del Regno che stava per l’appunto disegnando il prospetto relativo al Maschio Angioino. Per quanto riguarda il periodo di regno di Carlo II dai registri angioini, Carlo De Lellis ne ricavò un interessante documento storico che accerta un pagamento regio del 1292 per nuove riparazioni al castello ed il suo relativo riordino della questione armamento8. Ma le notizie esaustive circa la morfologia topografica del castello di quel secolo la si ha negli atti in custodia al fondo della cancelleria di Roberto d’Angiò definitivi e duraturi fino alla fine del XIV secolo. In effetti in maniera molto descrittiva oltre che interessante il Filangieri riassume lo stato dei fatti attorno e dentro alla struttura trecentesca del monumento, anche e soprattutto grazie all’esame di una miniatura del castello, eseguita nel 1352 nel codice degli statuti dell’Ordine del Nodo, conservato oggi presso la biblioteca Nazionale di Parigi. Quindi anche relativamente all’esame di un documento spedito l’8 maggio del 1324, si sa che la cancelleria angioina fa eseguire altri ed ulteriori lavori di risanamento all’immobile, il quale, dal Trecento e probabilmente fino a tutto il Cinquecento si presentava con la Torre di Colleville all’estremo settentrione, e la Torre di Mezzo dal lato dell’Occidente affacciata al mare e grazie ad un ponte di legno era collegata alla Sala Magna; la prima Torre Maestra presso la sede delle prigioni, domus captivorum, e la seconda Torre Maestra, presso l’edificio sacro del Santo Salvatore. Ad occhio è visibile la struttura quadrata delle torri con bifore aperte ed archi a tutto sesto di prevalente stile romanico ed infine è notizia del 1370 di una violenta tempesta che si abbatte sul castello rovinandolo in gran parte. Nel confronto che se ne può ottenere tra la miniatura del 1352 e la Tavola Strozzi del 1465 sono visibili trasformazioni consistenti alla struttura del castello differenziata dall’assenza sulla Tavola Strozzi di un grande arco naturale giusto al centro dell’isolotto presente invece sulla stessa miniatura ed in luogo dell’arco naturale, si osserva un arco in muratura, cosa che fa supporre un crollo della volta della cavità poi ricomposta dall’azione umana. È anche ipotizzabile ovviamente che in seguito al crollo sia rimasta pressocché intatta la struttura antica del romitorio di Santa Patrizia, la sala ad archi gotici su rocchi di colonne romane, nonché una finestra romanica a quattro luci sul lato orientale, tutte opere anteriori al 1300. Le opere di ricostruzione dell’immobile successive alle testimonianza anzidette furono iniziate da Giovanna, la seconda regina di Napoli ed affidati alla direzione dell’architetto napoletano Giovanni De Gilio. È del complessivo periodo di risanamento dell’immobile ai tempi di Giovanna I che si riferisce l’iscrizione visibile sul portale d’ingresso. Dopo il 1420 all’arrivo in città della forza catalana, venne murato sul fronte orientale del Castello un grandissimo stemma aragonese ancor oggi visibile e vent’anni più tardi al Castello venne aggiunta nuova artiglieria si legge sul documento in analisi, costituita da ”palle di ferro”. Fu invece del periodo legato alle attività d’insediamento di Alfonso d’Aragona che il Castello ebbe nuovamente mutato il suo aspetto, assolutamente diverso dalla fattispecie normanna, dalla quale, differiva soprattutto per le torri ”mozzate della loro altezza”, ed un organismo architettonico prevalentemente più basso, massiccio e compatto; cessata quindi la minaccia saracena via mare, venne costituito come prioritario alla difesa il lato nord del castello e lasciato alla originaria conformazione duecentesca il lato a sud. Tutto quanto il complesso edilizio centrale del Castello fu riordinato secondo criteri nuovi, trasformando questo settore in un ampio palazzo con vaste aperture protette dalle artiglierie piazzate tra le bellissime merlature. La parte a nord venne invece rifatta di tre torri, robuste e a pianta ottagonale. Dell’enorme importanza rivestita da questa struttura e delle cure ad essa concessa da sempre da parte di tutti i sovrani che vi alloggiarono o ve ne presero le difese, anche durante il periodo della calata di Carlo VIII, è interessante quanto raccontato dal Filangieri in un suo libro edito nel 19569, circa gli elementi struttivi del Castello da confrontarsi nei particolari disegnati sulla Tavola Strozzi ed i successivi ”Capituli e pacti” stipulati nella seconda metà del XV secolo ed infine, l’arrivo dei francesi di Luigi XII, i battaglieri che diedero inizio alla brillante epopea cinquecentesca di Castel dell’Ovo, 1502 e a seguire, la loro contestuale cacciata da parte degli spagnoli capitanati dal Cordova, affiancato dall’ingegnere d’armi Navarro, che ne approfittò della ressa per sperimentare, e va detto anche con successo, le bombe da lui stesso progettate per arrecare danni ingentissimi.


Ricostruito il castello dagli spagnoli fu ripreso per dar luogo ad uno stranissimo mulino a vento.

Ciò fu visto che, gli stessi spagnoli vollero sfruttare le correnti del Golfo per azionare le pale eoliche e di lì ottenere forza lavoro per le macine collocate nella pancia del Castello.

  • E far lavorare gli impianti per la farina e l’orzo. Ma per una migliore conoscenza delle pulizie messe in opera nella sottofondazione del Castello, gli accomodi al ponte di collegamento, per sapere dei nomi e dei maestri che lavorarono agli armamenti del Castello, e per tutto ciò che riguarda più nello specifico le attività in essa espletata dagli spagnoli sono considerati utili contributi il Partium Summarie ed i fondi della real Camera della Sommaria, oggi all’Archivio Storico di Napoli in piazzetta Grande Archivio10. A parte un ”ricordo spaccacuore” del Parrino, circa l’istallazione della batteria del Ramaglietto, ed ovvero l’alloggiamento a sud di 60 pezzi d’artiglieria a ridosso della Torre Normandia, che fino al 1933 si presentava quasi completamente del tutto distrutta, del Castello inizia a sapersene sempre meno e tutto sembra interrompersi attorno al 1665, anno in cui il vicerè di Napoli, Alvarez de Toledo, fa edificare all’inizio del ponte di collegamento al Castello un altro bastione alla sommità del quale, fa risiedere un corpo di guardia armato per incrociare il fuoco della difesa. Qualche accenno verrà poi ripreso nella turbolenta faccenda dei fatti di Masaniello e poi niente più, la storia del Castello volge verso la forma unita e compatta che dall’aggiunta del fortino a mare dovuto al vicerè Conte di Santo Stefano arriva, tale e quale, fino all’era moderna, con qualche paura scampata di abbatterlo in un progetto di risanamento della città nel 1975. L’acqua buona da bere arriva nelle sale del Castello a partire dal 1693 ed ancora notizie su di esso vengono trascritte per le lotte dei tedeschi di Carlo VI e gli spagnoli e tra vittorie e sconfitte e dominazioni tedescofone, il Castello riprende il patronato sotto Carlo di Borbone nel 1734; all’inizio dell’800 si crede vero solo per propaganda, verrà a risiederci Gioacchino Murat, e durante l’epopea della restaurazione borbonica il Castello è nuovamente nelle sedi regio borboniche, fino al 1860, anno in cui, fu usato come foresteria militare. Tutta quanta la documentazione per attestare lo stato dei fatti che riguarda questa struttura è accuratamente raccolta, presso la Sezione Militare dell’Archivio di Stato, fondo Ministero della Guerra, ed in alcuni Excerpta relativamente agli anni 1724-1776.

Castel dell’Ovo nelle incisioni antiche.

Castel dell’Ovo è stato ritratto una prima volta in una miniatura del 1352, inclusa nel codice dell’Ordine del Nodo.

  • Oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, ed un suo ritratto nostrano lo si rileva per la prima volta sulla Tavola dello Strozzi datata 1465, in custodia in una delle sale della Certosa di San Martino. Altra copia antichissima della panoramica del castello si trova su di un’incisione del 1575, oggi presso la Società Napoletana di Storia Patria al Maschio Angioino11 e sulla pianta di Napoli di Nicolò van Achs, del XVI secolo presso l’Archivio di Stato a piazzetta Grande Archivio. Ed ancora su di un’incisione di Desiderio Barra, presso il Museo di San Martino al Vomero12, ed in una collezione privata anche una splendida veduta del castello risalente al XVIII secolo di Hedrik F. Van Lindt. Sempre presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria si conserva la veduta di Castel dell’Ovo, di Giovan Federico Pesche, edito da Bulifon, e comunque il medesimo autore della mappa di Napoli sulla quale, unico nella storia di questa città, ha ritratto insieme il Ponte della Maddalena e la chiesa di Santa Maria del Pianto sul colle cimiteriale. Si trova anche nella più generalizzata ormai famosissima pianta del Lafrery del 1566, su quella di Pier Giacomo de Rossi datata 1649, oggi al Museo di San Martino, e sulla pianta di Napoli di Paolo Pietrini del 1748 nella raccolta stampe dell’Archivio di Stato. Ancora presso il Museo di San Martino vi sono le vedute del Castello realizzate nel 1719 da Gaspare van Witten, nel 1756 da Matteo Seutter, una Pianta di Napoli del 1727 di Homan di Norimberga, e la celeberrima Pianta del Duca di Noja del 1775. All’Archivio di Stato invece si conserva ancora una Piazza di Napoli interessante proprio il castello opera dell’incisore regio G. Guerra, datata 1790, e presso il fondo real Officio topografico della Guerra del medesimo archivio anche la Pianta di Napoli di Luigi Marchesi 1813 ed una revisione della stessa datata 1853. Infine, il Castello è ritratto nella pianta ad esso dedicata nel 1872 dal Giambarba, nella Topografia Universale della città di Napoli del Carletti, sulla Pianta di Napoli, De Fazio Malesci, 1805 e sul disegno di Alessandro Hiacinte Dunoy datato 1813.


Spazio note

(1) Si tratta di un’iscrizione latina rompicapo, si dice ritrovata alla base di Castel dell’Ovo, e considerata una sorta di formula magica, usata dallo stesso Virgilio per incantare il Castello, e con esso tutta la città di Napoli al destino di un uovo. Alla nota 2 si è provati a dare un minimo di spiegazione al significato di Castel dell’Ovo.
(1bis) Liberamente estratto da: Camillo Gubitosi e Alberto Izzo Castel dell’Ovo. Il rilievo, il restauro, la ristrutturazione, estratto dagli atti dell’Accademia Pontaniana. Nuova Serie- Volume XVII, Giannini Napoli 1968 1070727 Alla BNN fondo Pontieri Miscellanea B 160/33 Comunicazioni di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo presentata dai soci ordinari Jole Mazzoleni e Michele Fuiano
(2) Fu così menzionato per la prima volta in un documento storico studiato dallo Schipa in La prima menzione di Castel dell’Ovo, Napoli Nobilissima, II 129 e seguenti. La primitiva denominazione di Castrum Ovi, è stato studiato che sia contemporanea alla dicitura Castrum S. Salvatoris ad Mare de Neapoli, riportandosi alle modifiche che il Comparetti apporta alle ricerche precedenti, e che in sostanza la vorrebbe anteriore al XIV secolo, quasi sicuramente attorno alla seconda metà del XIII secolo. Secondo le descrizioni fatte dalla Rispoli e risalenti al 1958, descrizioni queste che ancor oggi riflettono realmente lo stato dei luoghi, il castello sorge su di un isolotto situato a sud sud-ovest del Monte Echia, ed ha in pianta una sagoma triangolare, la cui base prospetta verso la terra ed il suo vertice si spinge a mare per 200 metri. Da quella estremità parte una sottilissima striscia di terra su cui restano tutt’oggi installate fondazioni spagnole. Altra cosa è quanto invece riporta il Sasso, che si attarda su notizie presumibilmente ricavate dalla tradizione, specie quando insiste nel definire Megaride, altro nome con cui è ricordato l’isolotto, l’antica città greca Mègara, e che in questo luogo vi abbia trovato riposto l’emporio dei comodi Lucullo, il generale romano, che qui vi avesse piantato per la prima volta nella storia agraria della città le ciliegie fatte venire da Cerasunto e le Pesche fatte venire dalla Persia. Il Parrino, invece intende Megaride sempre come Megara, ma questa volta intesa come Megara la moglie di Ercole, ed il Dattilo, che sostanzialmente riprende il Parrino, aggiunge solo che all’Isolotto sarebbe appartenuto anche la raccolta dei papiri adunati nel castro e conosciuta come la ricchissima biblioteca luculliana, cui di dice, vi abbia preso parte per motivi di studio, lo stesso Cicerone. Luigi Picone, Il Castel dell’Ovo. Il recupero come progetto, Edizioni Scientifiche Italiane. Giugno 1982, La Buona Stampa di Ercolano, alla BNN, Sezione Napoletana collocazione VII B 53 note alle pagine 25, 26 e 27. Presso lo stesso castello un tempo esisteva materiale lapideo che suggeriva ipotesi verosimili che spiegassero la strana denominazione di Castello dell’Ovo. Cesare De Seta nel suo testo sulla Storia di Napoli dalle origini al ‘700, unitamente alle ricerche storiografiche di Virgilio nel Medioevo, condotte dal Comparetti basterebbero a soddisfare la curiosità. Si dice che in epoca altomedievale era quasi normale attribuire poteri talismanici ai personaggi che in quella stessa epoca erano già considerati antichi, primi tra questi proprio lo stesso, poeta mantovano, Virgilio, vuoi per la sua dimora a Posillipo vuoi per la presenza a Napoli del suo sepolcro presso l’omonimo sacrario a Piedigrotta. Ed è proprio a Piedigrotta che inizia la leggenda dell’uovo che Virgilio avrebbe preso da terra, aspettato che l’avrebbe fatto la prima gallina vista, e poi lo avrebbe preso in mano e posto al centro di una caraffa e la caraffa a sua volta chiusa in una gabbia tutta in ferro e la gabbia l’avrebbe fatta appendere alle travi di una stanza del castello, rimasta per tutti questi secoli segreta, ed avrebbe così consacrato il castello, e con esso ciò che fu a quell’epoca la città di Napoli al destino di quest’uovo. Nulla, si dice che avesse detto Virgilio, nulla dovrà sopravvivere al destino dell’uovo. È più che probabile che la leggenda dell’Uovo è vera, falso è che sia di Virgilio, presumibilmente di qualche conoscitore di orfismo greco di stampo tracio, proveniente dal tardissimo 800 a.C., e vissuto alla corte di Guglielmo I, che, nel 1154 lo fece, si dice, ma non è sicuro, edificare sulle preesistenze megaridee. La conoscenza che avrebbe avuto questo cortigiano della cultura tracia della forma ovoidale avrebbe suggerito al sovrano di denominare il Castello da Castello Marino, così come si chiamava e Castel dell’Ovo indicando con ciò che doveva esser questo e no un altro il luogo dove sarebbe nata la città di Napoli. OVO MIRA NOVO SIC OVO NON TUBER OVO, DORICA CASTRA CLUENS TUTOR TEMERARE TIMETO.
(3) [Cronicon siculum incerti authoris ab anno 340 ad annum 1396 in forma diary ex inedito Codice Ottoboniano Vaticano / cura et studio Josephi De Blasiis. – Neapoli : ex regio typographeo Francisci Giannini & f., 1887. – XI, 143 p. ; 35 cm. ((Ed. di 275 esempl. num. Collana Monumenti storici Autore secondario De Blasiis, Giuseppe Soggettario Firenze CODICE OTTOBONIANO VATICANO – Studi ITALIA MERIDIONALE – Storia – 340-1396 Luogo pubblicazione Neapoli Editori ex regio typographeo Francisci Giannini & f. Anno pubblicazione 1887]
(4) Più precisamente si tratta di un gruppo di monaci dell’Ordine di San Basilio, sbarcati sull’isolotto con appresso le reliquie del santo abate, Severino, andati ad abitare nell’antichissimo nonché primitivo romitorio di Santa Patrizia, nient’altro che solo un gruppetto di celle scavate nel tufo, a base di una futura costruzione più complessa ed oggi, visitabile grazie all’azione di bonifica attuata dal Marini che ne svuotò gli ambienti della terra di riporto che le aveva colmate. In alcune di queste cellette sono riscontrabili ad occhio gli intonaci del romitorio e qualche segno religioso di rito costantiniano e le uniche due di forma perfettamente regolare non è escluso che fossero state utilizzate per officiare il culto cattolico di Bisanzio. Ed infine gli stessi ambienti furono poi col tempo adeguati all’uso di ossario. Ne parlano in maniera ancor più dettagliata: Parascandalo L., Memorie storiche etc della chiesa di Napoli, Napoli, 1847 alle pagine 78 e seguenti. Ed ancora: Mazzoleni J., Il Monastero dei SS Severino e Sossio ect, Napoli 1964, pagina 5; ed ancora, Mazzocchi A. S., Dissertatio historica de cathedralis ecclesiae neapolitanae, Napoli 1751.
(5) I monaci basiliani fondarono sul posto un monastero secondo le regole di San Basilio e, forse, due chiese, una sicuramente a cui dettero il nome di chiesa del Santo Salvatore e da cui, Santo Salvatore si chiamò l’intera isola, sulla quale, tradizione vuole, che nel 365 d.C., vi sbarcò Santa Patrizia, nipote di Costantino, quando fuggì da Costantinopoli e che in detta chiesa vi morì. Sotto la chiesa medesima del Santo Salvatore, ancor oggi esistente sebben molto trasformata, esistono luoghi sommersi, scavati nella roccia ed in parti separati da pareti in tufo che determinano spazio illuminati da sole feritoie ed altri invece completamente al buio. Tradizione vuole che in queste condizioni di primitività abbia vissuto e pregato Santa Patrizia, in una piccola cella quasi del tutto buia, e con un pozzo interrato, dai bordi segati dallo strofinio delle corde per la raccolta d’acqua. Pagina 27 di Luigi Picone, testo già citato alla Op. Cit.
(6) Si tratta più precisamente di due sacelli adibiti durante i secoli della dominazione aragonese, viceregnale e borbonica a magazzini per lo stipo delle armi e solo successivamente addirittura ad uso abitazione. Ma giunti fino al 1920 le due chiesette si presentavano in totale stato di abbandono, che erano luoghi di culto parrocchiale a poca e misera cosa. Arcate interamente chiuse, colonne murate, vani divisi e suddivisi in stanzucce e tra impalcature varie, vi si osservavano il posto dove furono rimossi altari e quadri, e a quel tempo alcune scalette di legno nascondevano percettivamente lo spazio angusto in cui ancora sopravvivevano le ogive angioine. Testimonianza riportata dal Martini e descritta interamente a pagina 37 del testo di Luigi Picone, op.cit
(7) Filangieri R., Castelnuovo, reggia angioina e aragonese di Napoli, I edizione del 1934, ristampa del 1964, pagina 3. Idem: Castel dell’Ovo nelle sue più antiche rappresentazioni, in Rassegna storica napoletana, 1934, pagina 144 e la bibliografia ivi citata. Colombo A. Il Castel dell’Ovo in Napoli Nobilissima, a. VI e VII
(8) Carlo De Lellis, Notamenta ex registris Caroli II etc., vol. IV bis, dal Reg. 1292, E, f. 124
(9) R. Filangieri, Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, edizioni Accademia Nazionale di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Napoli 1956, pagina 107 e segg.
(10) A.S.,N., Patrium Summarie, vol 96. F. 1 t°, a. 1517 scarico di sale con la nave di Felippo Ferrara; Torri e Castelli, NS, vol. 60 pag. 232; ed ancora: A.S.N., dipendenze della real Camera della Sommaria, fs 175, n° 3 per gli anni 1564-1565.
(11) Collocazione V, 104a
(12) Collocazione Brancaccio