Palazzo Capone San Marco Napoli

Lo studio dello stabile rende possibile ricostruire le vicende che, sin dal XII secolo, caratterizzarono la posizione politica e commerciale della Serenissima nell’Italia meridionale1quater .
Si trova esattamente al numero 19 di Via Benedetto Croce, uno dei sette nomi di Spaccanapoli, nello spazio condiviso con il palazzo Filomarino della Rocca, il palazzo Carafa della Spina e a sud apre e chiude l’angolo di palazzo Petrucci.
Ad ulteriore conferma dell’importanza, sta poi l’interesse per la sua storia che non era sfuggita a studiosi del calibro di Croce e di Fausto e Nicola Niccolini, i quali vi hanno dedicato più di uno scritto apparso sulla prestigiosa rivista di storia dell’architettura Napoli Nobilissima.
L’Androne dell’edificio affaccia nel cortile con un arco ribassato, sulla sinistra della quale è collocata la settecentesca scala aperta a tre fornici di cui il centrale più largo. La tettoia di accesso è in ferro e vetro e risale, con ogni probabilità, agli inizi del XIX secolo.
La tipologia della “scala aperta” si ritrova spesso come motivo architettonico in numerosi cortili napoletani.
Uno di questi, al palazzo dello Spagnolo al Borgo dei Vergini, altra simile struttura al palazzo San Felice al Rione della Sanità.
- Nelle poche righe della lapide posta a destra della scala che affaccia nel cortile interno, sono riassunte tutte le vicende storiche che hanno interessato il palazzo per ben quattro secoli. Dalla donazione alla Serenissima, nel 1412, alla cessione all’Austria col trattato di Campoformio e col Congresso di Vienna (1814-1815), alla vendita e all’acquisto da parte di Gaspare Capone, nel 181622bis, già fittuario della villa Vacca a San Giovanni a Teduccio. Ancora, negli anni Settanta del Novecento, un importante gruppo di studiosi, editò la collocazione dell’immobile in un “blocco” definito come:” uno degli insiemi di fabbriche più importanti di tutto il centro antico per la peculiarità di forme artistiche e complessità di stratificazione storica”. Pertanto, è fatto conidviso che la struttura testimonia l’evidente collaborazione politica tra la Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli, rientrando in un più generale contesto di innovazione delle relazioni internazionali, anticipando quella che, in maniera piuttosto rapida, sarebbe diventata poi, la regola generale nei rapporti fra paesi sovrani. Durante tutto l’arco del Seicento, Palazzo Capone San Marco subì importanti lavori che lo modificarono quasi del tutto. Alcune lapidi nel cortile restano a testimoniare questo lungo e tormentato processo. Una prima iscrizione posta lungo tutto il bordo della loggia che affaccia sul cortile interno, è datata 1610 e si riferisce lavori proposti qualche anno prima al Senato, dal presidente Agostino Dolce ed eseguiti qualche anno più tardi da Geronimo Zon. Sempre a lavori di ripristino si riferiscono le altre due lapidi poste nel cortile: la prima del 1646, e la seconda del 1688. La terza lapide, datata 22 settembre 1737 è particolarmente significativa perché non si riferisce come quelle precedentemente incontrate, a lavori di restauro o di consolidamento del palazzo, bensì fu posta semplicemente a solenne affermazione dell’amicizia che la Repubblica veneziana offriva a Carlo di Borbone. Il console dell’epoca a cui fu affidato il delicato compito era Cesare Vignola. Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare non ci sono affreschi, dipinti o decori, nella prima stanza dell’unico appartamento che ancora lo ricorda. Presumibilmente perché tale situazione deve essersi deteriorata insieme col resto dell’edificio. E’ anzi da supporre che gli interni non venissero ripristinati durante il lungo e travagliato restauro settecentesco per la estrema limitatezza dei fondi messi a disposizione dal senato veneto per i lavori. I soffitti, ora ricoperti, sono di origine ottocentesca, tipicamente napoletani ( con le tipiche ”chiancarelle” di sostegno).
L'unico appartamento pubblico di Palazzo Capone San Marco.
Gli affreschi e i decori in quest’ambiente sono del '700, con la particolare ubicazione planimetrica che consentiva l’ascolto della santa messa a tutto il piano, anche nelle parti ora inaccessibili.
- Lo spazio della cappellina è molto costretto a causa degli interventi di rifacimento che sono stati operati nel tempo. Tant’è che proprio la cappellina rappresenta uno degli spazi di intervento più problematici dal punto di vista progettuale. Sulla loggia fa da sfondo un cortile. Nel suo aspetto settecentesco si presentava caratterizzata dalla presenza di una balaustra in pietra e da una suggestiva quinta costituita da alberi di limoni, aranci, cedri e viti. Intorno al 1815, a seguito dei lavori di ripristino fatti avviare dal giurista napoletano Gaspare Capone, la balaustra in pietra fu sostituita da una in ferro e la “quinta naturale”, fatta di alberi, lascia il posto ad una piccola ma scenografica costruzione: l’ esedra, il cui compito è proprio quello di attirare la curiosità dei passanti. Di fronte si vedono vani, che, negli anni passati, facevano parte del salone delle feste, ora dismesso. Il salone girava tutt’intorno al perimetro del cortile ed è lungo ben 14 metri3.
Breve storia del capanno degli attrezzi diventato col tempo la casina pompeiana.
In realtà si è sempre trattato fin dagli anni della fondazione del giardino di un capanno per gli attrezzi.
- Durante le epoche delle spoliazioni capresi, quando cioè, componenti deviate della ricca borghesia inglese in viaggio per il meridione italiano fingevano di repertare qua e là pezzi antichi di Pompei per poi spacciarli come veri e lucrarci sopra, finirono per condizionare il comportamento dei ricchi locali, che per l'appunto adeguarono lo sgabuzzino del giardino in una sorta di ambiente che accogliesse i reperti finti pompeiani. La casina quindi si presenta con prospetto a tre campate, intervallate da coppie di colonne doriche e da un frontone triangolare soprastante – è stata realizzata dal Capone nel 1816. La sua acustica è perfetta. Ora è chiusa da alcune vetrate ma queste sono state aggiunte nell’arco del '900. In origine la costruzione era completamente aperta; una sorta di gazebo dell’epoca in tipico stile pompeiano. Pagano, aggiunge che al di sotto di questa costruzione vi sono tre cavità ipogee. Dalla perizia redatta dall’architetto Antonio Guidetti per conto del residente Gian Giacomo Corniani, si è appreso che nel 1706 il giardino aveva “quaranta piedi di agrumi, aranci e limoni, e circa cento piedi di varii frutti mangiativi”. Poi però a seguito dei lavori che nel 1816 il nuovo proprietario, Gaspare Capone, fece eseguire, il giardino fu ancor più ridotto sino alle dimensioni attuali. La casina pompeiana, fatta costruire dal Capone contribuì a comprimere ulteriormente gli spazi. Di fronte, si erge il terrazzo dal quale affacciava il filosofo Benedetto Croce. In un angolo del giardino, quasi nascosto dalla vegetazione, si ritrova una piccola costruzione. La sua particolare struttura, con soffitto “a cielo e stelle” di uno splendido colore celeste brillante e la sua particolare ubicazione, fa immaginare come potesse essere un tempo, luogo di raccoglimento e anche motivo di vanto per il proprietario di turno, magari con suggestivi giochi d’acqua e di luce. Ed è proprio a questa preziosa “amenità verdeggiante”, che illustri studiosi hanno dedicato le loro indagini e le loro riflessioni definendo il giardino di Palazzo Capone San Marco una sorta di modello, nel quale possono rintracciarsi i principali caratteri del giardino napoletano. “Il banco tufaceo su cui insistono quasi tutti i giardini, forato da mille e mille cunicoli e grotte, esprime il saldo legame dell’elemento vegetale con il sito di fondazione della città cumana, distesa nel punto più alto di un pianoro conformato a terrazzamenti naturali che degradano in pendio da Sant’Aniello a Caponapoli fino a Monterone e cinta da mura che assecondano docilmente l’orografia naturale4“. Esso conserva ancora un accentuato andamento in pendio sul massiccio banco tufaceo percorso da cavità artificiali che mettono in comunicazione il cortile, l’appartamento ed il giardino che presenta l’orientamento del vicino convento di San Domenico Maggiore, a sua volta condizionato dalla presenza delle mura greche lungo il lato occidentale della chiesa.
Storia breve della struttura di Palazzo Capone.
Nel 1647, appena restaurato, Palazzo Venezia si trovò al centro della rivolta del rivoluzionario di Masaniello.
- Proprio in quella zona, infatti, la battaglia fra le parti avverse si scatenò furiosa. Ancora più triste fu la sua sorte durante il dilagare della peste nel 1656; la residenza per qualche tempo rimase vacante quando il viceconsole Giovan Francesco Valentini e tutta la sua famiglia morirono appestati. Il palazzo rimase affidato alla custodia di una donna. Dopo che anche questa morì, la casa di San Marco fu lasciata nel più completo abbandono, tanto che divenne deposito di cadaveri. Nel novembre 1658, quando giunse a Napoli il residente Francesco Bianchi, si trovarono ancora cadaveri nei pozzi. Il pozzo nel giardino è stato murato. Una curiosità è che la pietra di piperno semicircolare che ora delimita una parte dell’aiuola, era un tempo, il bordo del pozzo. Alzando lo sguardo, si possono ancora vedere le staffe che costituivano la guida lungo la quale veniva calato il secchio per poter attingere acqua dal pozzo. La possibilità di poter attingere acqua da pozzi sistemati all’interno delle proprietà era una caratteristica esclusiva delle grandi proprietà nobiliari. Lo stemma dipinto sulla volta, all’entrata, testimonia il titolo di marchese concesso da Carlo II in data 10 ottobre 1745 alla famiglia Capone. Il disegno del blasone è errato a testimonianza del fatto che il pittore incaricato dell’affresco fu mal istruito sui particolari del tema oggetto di raffigurazione. Tale tema, così come lo si rileva, rappresenta su di uno sfondo d’oro un gallo posto sulla cima di tre colli mentre il tema ufficiale avrebbe dovuto raffigurare su un fondale d’argento, un cappone fermo sulla cima media di tre monticelli. La particolarità dello stemma, sormontato da una corona a dieci punte, sta nella sua forma, poco utilizzata per raffigurazioni simili; lo scudo, infatti, appare semi-appuntito con i cantoni smussati. Fratello maggiore del più noto Palazzo Venezia di Roma, il “il napoletano palazzo Capone San Marco”, detto anche Palazzo della Residenza, è stato per circa quattrocento anni sede dell’ambasciata veneta nel Regno di Napoli. Si tratta, come già notò Benedetto Croce, di una delle più importanti costruzioni poste nel cuore della città, oltre al fatto di essere unica nel suo genere. Sin dalle origini il giardino rappresenta la amena estensione all’aperto della dimora, esprime la persistente sensazione di essere accolti in una stanza a cielo aperto, come nel giardino romano che, ha scritto più volte Pierre Grimal, ignora le vaste prospettive perché ciascuno degli elementi che lo compone è chiuso in se stesso. Fino alla fine del Settecento l’unità dell’ambiente interno e di quello esterno è favorita dalla presenza di una loggia aperta sul giardino e sul cortile […] Questa immagine ormai perduta descrive la versione a corte dell’edificio che, come tanti altri palazzi nobiliari, si attesta nell’insula, ma alla ricerca di spazio e di monumentalità. La scenografica immagine del terrazzo e del retrostante sfondo vegetale, con la sequenza di strada, corte, loggia e giardino che tanto colpisce[…] è già agli inizi del Seicento uno degli attributi urbani più diffusi e oggetto di ammirazione [….] Da elemento nascosto, il giardino diviene nel Seicento il visibile fondale della prospettiva dalla strada, tradendo così l’antico patto di riservatezza. Nella seconda decade dell’Ottocento il giurista Capone acquista il palazzo dal governo austriaco e realizza un volume absidato tra la loggia e il giardino. In tal modo, l’area verde viene riportata all’originaria condizione di luogo non immediatamente visibile. La costruzione di un coffee-house in stile pompeiano ne accresce ulteriormente il godimento, enfatizzandone l’intimità e l’isolamento. Non è un caso forse che il modello vagheggiato dal nuovo proprietario sia desunto dall’architettura romana e per questo il giardino ritorni ad assumere i toni della classicità. Sul tempietto una iscrizione latina rievoca un’atmosfera in parte ancora percepibile ed i complessi valori che tale luogo riassume: CARA DOMUS SED UBIHORTULUS ALTER ACCESSIT QUANTO CARIOR ES DOMINO NUNC ET ADESSE AT ABESSE FORO NUNC TEMPORE EODEM VIVERE MI RURI VIVERE IN URBE LICET A.1818 ; ed infine, così tradotta: Da molto tempo tu mi sei cara, o casa, ma da quando un orticello si è aggiunto quanto più cara sei ora al tuo padrone ed io ora posso prender parte alla vita pubblica o non parteciparvi ed allo stesso tempo posso vivere in campagna e vivere in città5.
Spazio note
(1) L’importanza di Palazzo Venezia è testimoniata innanzitutto dall’attenzione che ha ricevuto da parte di studiosi, non soltanto urbanisti. Ad esempio da Croce che nel suo scritto "Un angolo di Napoli", parlando di Palazzo Filomarino, ove egli abitava, fa ripetutamente cenno all'edificio confinante, chiamandolo "il napoletano palazzo di Venezia". Nonostante il richiamo crociano però l'esistenza di una sede veneziana a Napoli, è quasi del tutto sconosciuta offuscata com’è dalla notorietà del più famoso Palazzo Venezia di Roma. A questa sorta di oblio hanno contribuito, per lo più, i compilatori delle varie guide di Napoli che hanno del tutto sottovalutato la rilevanza del sito.(1bis) Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici di Napoli Fondazione Pasquale Corsicato Spaccanapoli. Centro Storico Electa Napoli 1992 Sez Nap VII A 1602 A cura di Ugo Carughi Via Benedetto Croce. Lineamenti storici Pag 47 note a pagina 56. Per la notizia di palazzo Brancone-Borbone vedasi alla pagina 59 del testo. Diritto di stampa 1181609
(1ter) Il Palazzo Venezia romano fu costruito nel 1455 e fu ceduto alla Chiesa dalla Repubblica di Venezia nel 1564
. (1quater) Storicamente sono molti gli elementi che indicano un vigoroso interesse di Venezia per il Mezzogiorno d'Italia e per Napoli in particolare. Va detto subito però che tali premure furono ben lontane dal configurarsi soltanto in chiave economica e commerciale; su questo versante, infatti, Venezia era per lo più attenta ai noli e alle assicurazioni nonché alla gestione di alcuni settori merceologici come l'olio della terra d'Otranto e di terra di Bari. I motivi fondanti che invece indussero la Repubblica veneta, intorno al 1565, a riaprire una sua rappresentanza diplomatica a Napoli, dopo l'interruzione seguita alla caduta della dinastia locale nel 1501, furono essenzialmente politici. Il Regno di Napoli, infatti, controllava la sponda cristiana all'uscita dall'Adriatico ed in più costituiva un valido baluardo contro i turchi, la cui latente ostilità con Venezia spingeva la Serenissima ad avvalersi di tutti i rapporti che potevano favorire la difesa della repubblica. Inoltre Venezia si trovò a condividere con Napoli lo spinoso problema della pirateria barbaresca che affliggeva entrambi gli stati. Sicché, pur privo di particolare rilievo architettonico, Palazzo Venezia ha sempre contato molto sul piano storico-politico in quanto testimonianza privilegiata ed esclusiva dei passati rapporti intercorsi tra il Regno Napoli e la Repubblica di Venezia in periodo rinascimentale. Le origini di Palazzo Venezia risalgono sicuramente al XIV. Ma notizie certe se ne hanno dal luglio 1412 quando re Ladislao d’Angiò Durazzo, che stava concludendo con l'ambasciatore veneto Giovanni Lòredan una lega fra Napoli e Venezia contro l'imperatore Sigismondo, offrì in dono alla Serenissima, quale sede per i suoi consoli generali, un palazzo confiscato ai Sanseverino di Matera verosimilmente per la loro dichiarata fedeltà al pretendente francese.
(2) Nel corso del XV secolo, infatti, le relazioni internazionali furono sempre più caratterizzate da stabilità e continuità; condizioni necessarie a sostenere e favorire la sorprendente vitalità dei rapporti economici, culturali e commerciali che si andavano diffondendo velocemente in Europa. Sicché la tradizione degli ambasciatori in sede straniera, inizialmente guardata con sospetto da molti sovrani europei per i pericoli connessi agli intrighi di potere che ne sarebbero potuti derivare, era invece praticata in Germania e in Italia, paesi caratterizzati dal frazionamento della struttura politica e da un elevato tasso di particolarismo ma con la necessità di avere costanti rapporti fra le loro rispettive diplomazie. Infatti nel 1455 rappresentanze stabili erano già a Milano, Firenze, Venezia e Napoli; tale sistema indusse a coniare l’appellativo di “residente” per indicare la figura del diplomatico. Anche il Doge Steno in gioventù scansò la galera per una condanna inflittagli dal tribunale in seguito da un increscioso episodio di imbrattamento offensivo operato dal doge e dagli amici suoi scapestrati peggio di lui contro la persona di Maniero Faliero doge anch'egli giustiziato in seguito per alto tradimento. (2bis) Gaspare Capone allievo diretto del Fimiani ed erede del Cirillo è stato uno dei maggiori giuristi appartenuti allo Stato Borbonico della Restaurazione e nel 1809 assumerà il suo primo e prestigioso incarico diretto presso la Commissione del Contenzioso del Consiglio di Stato per la revisione in toto del Codice Civile; correva l'anno 1814, quando Gaspare Capone consegna il lavoro svolto.
(3) La Storia: realtà nell'immaginario di Elena De Angelis. Introduzione di Vincenzo Sannino. Si tratta di un giardino di grande rilievo paradigmatico perché, sebbene mutilato e trasformato, esprime in maniera esauriente i caratteri fondamentali dei giardini del centro antico. L’edificio cui appartiene fu definito da Croce “il napoletano di Venezia”. La sua storia è possibile ricostruirla dal 1412, anno in cui re Ladislao d’Angiò Durazzo lo dona alla Serenissima Repubblica veneziana dopo averlo confiscato ai Sanseverino di Matera, ma è accertata una sua origine quanto meno trecentesca. Diviene così una stabile sede diplomatica di Venezia e la residenza del suo rappresentante. La cinquecentesca cartografia di Jan Van Stinemolen documenta con realismo la versione originaria ad un piano con il fronte principale prospettante sul decumanus inferior e la parte retrostante su un’ampia area verde connotata col suo naturale andamento orografico. La ridotta dimensione dell’attuale giardino è conseguenza della progressiva espansione del limitrofo palazzo Brancaccio, oggi Filomarino, che ancora nel 1756 – come ricorda una lapide visibile sul muro di confine – ne ottiene, dalla Repubblica di Venezia,un’ulteriore porzione per edificarvi una nuova ala.
(4) Brani estratti dal lavoro collettaneo di Maria Luisa Margiotta, Pasquale Belfiore, Ornella Zerlenga, Giardini storici napoletani, Electa, 2000 cit.p.14 e ss.
(5) Il contenuto dell’epigrafe conferma una scelta intenzionale di conservazione del giardino-frutteto e dunque della sua connotazione utilitaristica, nonostante la trasformazione in senso romantico dell’originario impianto planimetrico quadripartito e l’inevitabile introduzione di essenze ornamentali come palme e magnolie. Ancora una volta ritorna un attributo della grecità che considera il giardino indifferente al disegno e privo di magnificenza perché teso alla sola soddisfazione dei piaceri naturali e necessari, esattamente come erano gli antichi giardini di Alcinoo, frutteti magici meravigliosamente fecondi, evocati da Omero. L’equilibrio ideale tra utile e diletto qui presente è uno dei ‘valori’ permanenti’ del sistema dei giardini del centro antico. Ne è consapevole lo stesso ambasciatore Corniani che nel 1706 fornisce una descrizione del luogo che assume i toni di una definizione generale del carattere esponente del giardino napoletano: “ Appresso d’haver questo Publico Palazzo un poco di Horto che in Napoli chiamano Giardino”. Tale espressione sembrerebbe contenere un malcelato disprezzo del luogo per la dimensione e la destinazione; in realtà i toni entusiastici che vengono usati per descrivere la feracità della vegetazione di agrumi e di alberi da frutto, l’amenità degli ambienti che vi prospettano e che godono “la partecipazione d’ambedue queste amenità Verdeggianti” ( Pagano De Divitiis; 1980, p.113) confermano l’ammirazione per questo spazio povero di magnificenza, ma ricco di costanza e ostinazione nella conservazione dei suoi valori secolari”. Il giardino di Palazzo Venezia resta un paradigma isolato per la compresenza in esso di quasi tutti i caratteri peculiari del giardino napoletano. […]
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