Palazzo Terralavoro a San Potito Napoli
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La bellezza riconosciuta di questo palazzo sta nella cornice raccordata a l’arco a tutto sesto del bel portale, caratterizzata dalla testa del satiro.
La testa del satiro va ricordato fu elemento antropomorfico aggiunto ai portali d’ingresso dei palazzi appartenenti all’universo dell’architetto, Luca Vecchione. Di Vecchione è anche il portale del palazzo al numero civico 32 di Via San Giuseppe dei Nudi, al numero civico 8 di Via Materdei, il famosissimo palazzo Ruvo sempre a Materdei, ed infine ai numeri civici 30 e 31 del Vico Neve.
Altro elemento di desunta bellezza architettonica di questo palazzo sta nei ballatoi e nei rampanti, impostati su pilastri che incidono insieme un profilo curvilineo, e via a via, verso il basso, sono rastremati fino al limite fantasioso di un accenno alla base di un capitello ad angolo smussato.
Fu acquistato da Andrea Terralavoro, e dagli eredi di quest’ultimo portato alla massima trasformazione nel 1734.
Dell’aspetto proto-barocco del palazzo però, fatto costruire sul posto per ragioni di speculazione edilizia tipica del suo secolo, non resta più nulla.
- A parte solo sulla facciata settentrionale di pochi elementi in piperno sopraggiunti superstiti all’era moderna. Fu ceduto nel 1659 a Francesco Antonio Pepe, per qualche ragione risultato erede diretto di Gian Giacomo di Conforto e l’8 marzo del 1676 fu acquistato con atto del notaio Francesco Limatola da Giovan Basilio Guarino. Il palazzo Terralavoro è mirabilmente visibile senza il cortile sulla mappa del duca di Noja poi ripreso in maniera più completa sulla planimetria nuova del Marchese.
Il palazzo Terralavoro apre il nuovo quartiere della città del Settecento all’espansione edilizia extramoenia di San Potito.
Ormai non più prescritta dalle prammatiche vicereali, in zona farà altreattanto anche il palazzo Cito di Melissano ed il palazzo Cimitile alla Salita Santa Teresa degli Scalzi.
- Al di là del circondario inframurario della città di Napoli del XVIII secolo, opereranno architetti di fama consolidata, professionisti del codice tardo barocco, che risposero egregiamente alla richiesta di realizzare capolavori dell’architettura di quegli anni solo accorpando case palaziate preesistenti ed ottenere dall’elemento scala la sola funzione di disimpegno dal palazzo stesso. Questi architetti furono purtroppo trascurati dalla letteratura urbanistica interessata piuttosto al genere illuminato, sopraggiunto alle arti dell’architettura napoletana e condotta a brillante esperienza dagli architetti ospiti in città dei re Borbone, Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga. Tutto ciò pose in ombra le attenzioni fino ad allora dedicate ad architetti altrettanto bravi del tipo, Nicolò Tagliacozzi Canale, Onofrio Parascandolo, ed il Nauclerio, affidabili mastri operativi nell’ambito delle costruzioni civili e religiose con notevolissime capacità, ed una speciale e particolare attenzione va all’architetto, Luca Vecchione, autore delle trasformazioni operate sul territorio proprio a partire dal palazzo Terralavoro. Esiste però una perizia scritta attentamente da Onofrio Tango nel 1659, nella quale si prova a descrivere lo stato dell’immobile ereditato dalla figlia di Giangiacomo di Conforto, Anna Maria, che lo possederà già all’epoca a tre piani, con ” … un grande cortiglio scoverto a sinistra e colla comodità di una stalla, rimessa, cantina, e stanza per la servitù”. Oggi l’unico elemento che lo caratterizza è la scala aperta su un lato del cortile, un elemento questo che è costante nella produzione settecentesca non solo su colle a San Potito e non solo durante l’epopea sanfeliciana. Il cortile del palazzo Terralavoro a sua volta si sviluppa intorno ad un vano quadrato con tre rampe e pianerottoli voltati con volte a crociera. Sulla facciata spicca per estensione fisica nient’affatto mutata all’indomani degli interventi otto novecenteschi il portale scolpito nella pietra grigio vesuviana, realizzato con due piedritti bugnati e capitelli sovrastanti di un classico stile ionico, e sui quali, sempre secondo uno stile classicistico dell’impresa sorreggono un mensolone in piperno a servire il balcone del piano nobile.
Spazio note
(1) Liberamente estratto da: L’integrazione dei borghi alla città: il ruolo di San Potito, Materdei, la Salute, pagine 109-119 di Alfonso Gambardella-Giosi Amirante, Napoli fuori le mura: la Costigliola e Fonseca da platee a borgo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994, diritto di stampa 1757198 alla BNN distribuzione 2008 c 192Categorie delle Guide
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