San Gregorio Armeno nel Cinquecento

Ciò avvenne in forza dei suggerimenti estratti dal documento conciliare Decretum de regularibus et monialibus data 1565.
I suggerimenti vennero poi discussi con orientamento territoriale e grazie al quale fu commissionato nuovo documento sinodale, il de monialibus, data febbraio 1565 ed infine celebrato giuridicamente col motu proprio di Pio V Circa Pastoralis data 1566.
I principi della riforma che diede grandi risultati sperati furono poi applicati anche a tutte le diocesi suffraganee2.
Il Cinquecento di San Gregorio, va premesso, fu l'epoca finale di una mentalità proveniente dal Quattrocento ed in parte iniziatasi già nel Trecento, in cui al complesso monastico vennero mandate a stare, praticamente a vita, le figlie delle nobili famiglie di Napoli ritenute impossibili da collocare nel tessuto magnatizio oppure quelle fanciulle per le quali non fu possibile destinare una dote cospicua per un matrimonio degno della propria schiatta.
Farsi monaca nel Cinquecento costava meno che sposarsi.
Per questo motivo, forse l'unico, secondo Felice Autieri, nei monasteri e nei conventi del Regno s'insinuò l'indisciplina, la mondanità, e più religiosamente parlando, il peccato.
- Tra l'altro l'anzidetto studioso riporta in nota i testi consultati su questo aspetto e sui quali si osserva come la portata di questo problema fosse ormai così diffuso da esser giunto persino all'attenzione delle autorità ecclesiastiche. Una nota di testo esprime in pochi caratteri il disappunto nazionale. Il ricercatore così esprime: ”i monisterii sono il ridotto di quelle che maritar non puonsi”3. Questa terribile situazione di fatto intasò il sistema monastico del Regno di donne che in realtà venivano chiuse in clausura per mancanza di fondi per un buon matrimonio, ma che però poi finivano per vivere come se fossero in vero maritate, frequentando uomini in gran segreto; il che portava a realizzare altre condizioni di vero e proprio reato, come per esempio o le monache fuor dai conventi e gli uomini dentro a monasteri per cui vi era proibito. Subito dopo la chiusura del Concilio di Trento, a Napoli, forte delle decisioni adottate dai conciliari nel documento che passerà alla storia col titolo di Decretum de regularibus et monialibus, il Cardinal Mario Carafa fece addirittura chiudere, ritenendoli non più idonei alla vita di clausura ognuno secondo le regole dei fondatori dell'Ordine religioso a cui appartennero, i monasteri napoletani di Sant'Aniello a Caponapoli, il monastero di Sant'Agata presso il Borgo degli Orefici, il monastero di San Festo presso il Monterone, zona Pendino alto, il monastero di Santa Maria della Misericordia al Borgo dei Verigini ed infine il Monastero di San Benedetto presso il quartiere di Chiaia4. Un intervento così clamoroso e così drastico5 tanto da esser poi sfruttato a beneficio della nuova formazione territoriale e pastorale nella piena disponibilità di uno strettissimo collaboratore del Carafa, il futuro arcivescovo della città di Napoli. La riduzione di molti privilegi legati alla vita claustrale per le donne raggiunse livelli inverosimili in forza delle prescrizioni de monialibus, tutte quante emanate dal sinodo del febbraio del 1565 e sostanzialmente confermate ed in più punti aggravate dalla costituzione Circa Pastoralis del 1566 dettata da Pio V, un documento destinato in questo contesto a condizionare la vita del monastero di San Gregorio in un sempre più crescendo di bisogno di riforma e appresso gli fecero seguito il Monastero delle Clarisse a Santa Chiara, il Santa Maria Maddalena, Santa Maria Egiziaca, Sant'Antonio da Padova, San Gaudioso, Donnaromita, Donnaregina. Santa Maria della Consolazione e Santa Patrizia6. Una delle più insolite tra le conseguenze dei provvedimenti adottati fu la contrarietà di molte monache, riottose ai cambiamenti delle regole che misurarono quasi perfettamente la clausura e quindi la scelta di molte di queste di abbandonare anche con una certa sofferenza la vita dei monasteri7.
Gli effetti della riforma nei monasteri napoletani e la cronaca di Fulvia Caracciolo.
In verità più che dalle fonti documentali gli effetti della riforma napoletana dei monasteri la si evince da un diario scritto da Fulvia Caracciolo, una monaca di San Gregorio nel Cinquecento.
- Questa scrive che il 6 aprile del 1568, domenica delle Palme, a San Gregorio Armeno, si appresenta il vicario generale della diocesi con in mano un documento. Dovrebbe esser questo il motu proprio di Pio V e leggendolo ad alta voce getta le monache in un sconforto universale. Infatti, continua il diario, leggendo quel pezzo di carta, il vicario diede alle monache tre giorni di tempo per professare la propria fede al Vangelo, rendere la propria vita da monaca alla Regola di San Benedetto ed i propri voti alla clausura secondo il magistero della chiesa di Roma in maniera solenne e senza costrizione alcuna, o, in alternativa, lasciare il monastero, con la contestuale che avrebbero perduto tutti i propri beni8. La cronaca di Fulvia Caracciolo annota con moltissima meraviglia i cambiamenti che ne seguirono, ed in verità annota anche tutti quei cambiamenti che non ne seguirono almeno non subito. La lettura del motu proprio di Pio V chiedeva, anzi pretendeva dalle vocande e dalle professe solenni di rivedere i rapporti con tutti coloro che erano incaricati di gestire i beni di San Gregorio, anche se il problema più grave toccò invece la libertà personale delle monache e appresso a questa anche la sistemazione edilizia di residenza delle stesse, poiché va ricordato, che per lungo tempo, le celle singole di ognuna delle monache pian pianino divennero veri e propri luoghi di residenza nient'affatto consoni alla Regola di San Benedetto. Quindi prosegue il racconto della Caracciolo, nonostante le prescrizioni imposte molte monache resistettero a cambiar vita, che sarebbe dovuta esser quella fedele alla Santa Regola giurata durante la celebrazione del rito di professione semplice e solenne. Persino le famiglie delle monache nobili protestarono formalmente contro le restrizioni imposte dalla riforma, fino anche, ricorda la Caracciolo, a produrre spaccamenti nel gruppo delle suore ribelli ed altre venivano vessate se non avessero occorso a dar mano forte alla resistenza interna. Ed il quadro generale della situazione ebbe tutti i risvolti di un'autentica tragedia dal momento che molte delle monache presenti nel monastero là dentro vi erano praticamente cresciute fin da bambine e di quel luogo ne avevano assunto il carattere non di ambiente austero dedito alla preghiera, ma di un amabile oasi di mondanità. Alla tragedia personale andò per qualche tempo ad aggiungersi anche la tragedia di tutto il complesso in quanto ad esser interessati dal motu proprio anche i vitalizi e gli appoggi economici di cui San Gregorio godeva già da lungo tempo da parte dei familiari delle monache. In effetti è risultato che per molto tempo le famiglie sottrassero le quote che abitualmente versavano al monastero per la propaganda promossa ogni volta che nella vita del complesso bisognava eleggere la nuova badessa e vennero anche a mancare fondi sufficienti a garantire la vita agiata di molte monache di San Gregorio che in verità nella società napoletana di quel tempo ricoprirono importanti ruoli politici, oltre alla disperazione di molte famiglie nel rivedersi tornare a casa la monaca che non potè più vivere in monastero9. Accadde finalmente che a fine novembre del 1568, non senza una stagione di grandi abbandoni, al monastero di San Gregorio Armeno calò la relativa quiete delle monache che ricredettero ed abbracciarono la Regola di San Benedetto alla luce del motu proprio di Pio V, iniziando a smantellare le proprie celle e a ridurle secondo il costume che vi si addiceva. Infine, la raccontatrice, Fulvia Caracciolo fu persino nominata amministratrice dei lavori di manutenzione del monastero10.
La fine del Cinquecento di San Gregorio Armeno.
Vi è da sottolineare che la vita della monache non fu mai un vero e proprio indice di malavita intramoenia, nient'affatto.
- Ed anche la stessa usanza di lasciare libero l'ingresso ai secolari non venne mai interpretato come un qualcosa di losco o di moralmente pregiudizievole. Le perplessità piuttosto trovavano ragione invece nella persistente abitudine di molti personaggi illustri ospitati nei monasteri, che, grazie alla loro appartenenza, spesso si procuravano licenze speciali per poter continuare a vivere chiuse in monastero come se fossero ancora nel mondo. Fu il caso della principessa di Cellamare, Ippolita Palagano, che con un breve del papa, si fece autorizzare quattro volte l'anno a ricevere in San Gregorio, dov'era rinchiusa, quattro dame aristocratiche frequentatrici di corte, ed un episodio analogo è anche raccontato da Stanislao D'Aloe, dove si dice di un'importantissima ospite fatta entrare nella clausura di Santa Chiara a Spaccanapoli ed offerta a questa una sontuosissima colazione, scrive il documento, fatta di ” … cose di zuccaro”11. Giusto per esser precisi, in verità le regole in San Gregorio venivano comunque rispettate, ma non fosse per quell'uso di vita in comune che, per esempio, la badessa Galeota nel 1554 seguendo l'entusiasmo dei nuovi cambiamenti seguiti alla riforma tridentina, sentì l'esigenza di profilare un nuovo stile di vita monastico fedele alla Regola di San Benedetto ma con accorgimenti e prescrizioni tali da rendere più consono all'austerità del luogo la vita singola di ogni vocanda e di ognuna delle professe solenni12. Il De Stefano informa che nel 1560 presso il monastero di San Gregorio vi erano circa settanta monache contro un patrimonio di fondi economici stimato in 1500 ducati annui, molto pochi non per la regolare vita monastica delle suore, quanto delle spese accessorie che molte di queste pretesero, come ad esempio, la serva ad personam, uno di quei privilegi cui San Gregorio godette mentre nel circondario del regno veniva invece abolito per decreto. È noto per questo monastero la speciale concessione cui godette la sedicenne Lucrezia Cosso di aver per sé sotto il titolo di ”educazione” la serva particolare, Dianora d'Ancona13. È suggestivo ricordare questa speciale consuetudine di far entrare a vita una propria serva particolare, cosa che in effetti servì forse anche all'educazione della professa semplice, come anche a quella solenne, ma in verità, fatto vuole che le serve particolari servirono piuttosto a far cassa. È vero, è stato studiato anche sui documenti che in San Gregorio la serva particolare veniva ammessa al monastero previe referenze e previo pagamento di cento ducati al momento dell'entrata. Poi ci volevano 42 ducati l'anno solo per mantenerla e nel 1642, qui, in questo monastero, si contarono ventidue serve particolari14. San Gregorio Armeno, che oggi mantiene aperto l'ingresso principale lungo via San Gregorio, fu uno di quei tanti monasteri femminili quindi divenuti durante tutto il Cinquecento un problema cittadino, soprattutto da gestire secondo una mentalità regnicola del tempo che superasse le ristrettezze giuridiche della chiesa locale. Ed in definitiva, il complesso monastico del XVI secolo potè dirsi tanto un vanto per i cittadini che dovette esser preso in diversa e nuova considerazione dai responsabili a quel tempo della res pubblica.
Spazio note
(1) San Gregorio Armeno: storia religiosa di uno dei più antichi monasteri napoletani di Felice Autieri in: FONDAZIONE VALERIO PER LA STORIA DELLE DONNE SAN GREGORIO ARMENO Storia, architettura, arte e tradizioni a cura di Nicola Spinosa, Aldo Pinto e Adriana Valerio fotografie di Luciano Pedicini Fridericiana Editrice Universitaria edizione italiana Maggio 2013 Stampato in Italia da Liguori Editore – Napoli Fotografie di Luciano Pedicini/Archivio dell’Arte, assistenti alle riprese Marco e Matteo Pedicini Tranne le fotografie alle pp. 97, 98, 99, 121 dx e 160 fornite direttamente dagli autori Spinosa, Nicola (a cura di): San Gregorio Armeno. Storia, architettura, arte e tradizioni/Nicola Spinosa, Aldo Pinto e Adriana Valerio (a cura di) Napoli : Fridericiana Editrice Universitaria, 2013 ISBN 978-88-8338-140-9 (BR) ISBN 978-88-8338-141-6 (RIL) 1. Monasteri femminili 2. Napoli 3. Storia religiosa I. Titolo La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a PH neutro, conforme alle norme UNI EN Iso 9760 ∞, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS).(2) f. Constitutiones et decreta provincialis synodi Neapolitanae sub Ill.mo et Rev.mo D.D. Mario Carafa, Neapolis 1580, 89-105; Romeo De Maio, Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli 1973, 200-202.C
(3) Cf. Giacomo Martina, Aspetti della vita cristiana e della cura pastorale. Dall’Ancien régime all’età liberale, Roma 1992, 122.
(4) Michele Miele, Monache e monasteri del Cinque-Seicento tra riforme imposte e nuove esperienze, in Donne e Religione a Napoli (secoli XVI-XVIII), a cura di Giuseppe Galasso e Adriana Valerio, Milano 2001, 91-138. Elisa Novi Chavarria, Monachesimo femminile nel mezzogiorno nei secoli XVI-XVII, in Il monachesimo femminile in Italia dall’Alto medioevo al secolo XVII, a cura di Gabriella Zarri, S. Pietro in Cariano 1997, 342-347.
(5) II degrado dei monasteri si può desumere, dal fatto che i tribunali civili dovettero intervenire «più volte» per «mandar in galera, far impiccare et tagliar la mano all’huomini violatori di tali monasterii». Cf. Giuliana Boccadamo, Una riforma impossibile? I papi e i primi tentativi di riforma dei monasteri femminili di Napoli nel ’500, «Campania Sacra» XXI (1990), 120-122.
(6) Cf. Acta et decreta synodi Neapolitanae Impensis Anelli Sanviti, Napoli 1568, 54-55, 60-65, 90-91, 166-181; Pietro De Stefano Descrittione dei luoghi sacri della città di Napoli, Napoli 1560, 187r
(7) Annamaria Facchiano, Monasteri femminili e nobiltà a Napoli tra Medioevo ed età moderna. II necrologio di S. Patrizia sec. XIV-XVI), Altavilla Silentina (Sa) 1992, 23.
(8) Francesco Ceva Grimaldi, Memorie storiche della città di Napoli, Napoli 1857, 56
(9) Raymond Creytens, La riforma dei monasteri femminili dopo i decreti tridentini, in Il concilio di Trento e la riforma tridentina, I, Roma 1965, 72.
(10) Renato De Fusco, Rileggere Napoli Nobilissima. Le strade, le piazze, i quartieri, Napoli 2003, 146. Cf. Adriana Valerio, Trento e la riforma dei monasteri femminili. L’esempio napoletano, in Anatemi di ieri sfide di oggi. Contrappunti di genere nella rilettura del concilio di Trento, a cura di Antonio Autiero e Marinella Perroni, Bologna 2011, 235-248
(11) Stanislao D’Aloe, Catalogo di tutti gli edifici sacri della città di Napoli e i suoi sobborghi, Napoli 1883, 72.
(12)«Nell’anno 1554 in circa alla sudetta Abbadessa Galeota prudentissima in tutto quello che rendeva honore e utilealla casa, comincio a non sodisfar tanta comodità che si dava alle moniche di uscir fuori, e rassettossi in modo, che quando si voleva uscire, bisognava accapar licenza, dall’ordinario, e fece prohibitione che ne i giorni delli perdoni, e delle feste di San Biagio e San Gregorio non si entrasse più nel Monistero, come si costumava, ma tutte le moniche venivano in processione ... L’Abbadessa cominciò anco lei a’ rivedere quel ch’era necessario alla nostra osservanza, e così mossa da giusto, e santo zelo, prohibì ch’alcune figliole de i nostri, le quali eran qui dentro per istruttione non potessero come solevano per l’adietro uscir fuori la clausura per andar nelle lor case, ma determinò che colei ch’una volta uscisse non potesse di nuovo rientrare nel monistero».
(13) D. Marzia Caracciolo Abb.a del Ven.le M.ro di S.to Ligorio, Priora, Decana et Maestro de Moniche Officiali in d.° M.ro facciamo fede che Dianora d’Ancona e stata accettata capitolarm.te et con voti secreti da tutte le monache di d.° M.ro pesserva soprannomenaria sotto tit.o d’educazione pesserva de D. Lucretia Cosso posta per educaz.ne in d.° Ven.le M.ro. Archivio Storico della Diocesi di Napoli, Vicario delle monache, 155
(14) Carla Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli nel secolo XVII, Napoli 1970, 63.
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