Architettura Rococò a Napoli fine Settecento

Deve intendersi per architettura rococò, la sola applicazione in stile rocaille, dal francese, ”roccia”, cioè, "operazione ispirata alla conformazione orografica dei luoghi in cui un oggetto tridimensionale viene fatto rinascere oppure un'opera dell'arte e dell'ingegno umano viene riscritta.
Questa operazione solitamente si applica agli ambienti esterni, come sola decorazione, specie per aree coltivate a giardino, successivamente fu estesa all’arredamento d’interni, chiese comprese, e persino in pittura oltre che in letteratura, sopravvivendo più come aspetto decorativo e non architettonico in senso stretto del termine "architettura".

Durante il secondo cinquantennio del Settecento la città di Napoli1, in forza del nuovo stile Rococò, acquista un volto per quell’epoca considerato moderno, primariamente per le componenti edilizie di tono elevato, nobile, sincrono, coerente, in cui vengono impegnate per la realizzazione di molte importantissime opere immobiliari, chiese e palazzi, tecnologicamente avanzate, maestranze artigiane locali, anche in vista dell’abolizione del feudalismo nelle regioni meridionali d’Italia avvenuto nel 1718.

Fu quello il periodo in cui, molte delle chiese di Napoliche oggi si ammirano all’interno dell’area perimetrale del Centro Storico UNESCO della città, vennero rifatte ex-novo o per lo più ammodernandone alcune si diffuse chiaramente evidente la nuova tipologia di lavoro: sotto l’attenta supervisione dell’architetto, in perfetta armonia tra loro lavoravano ognuno ai propri materiali i maestri stuccatori, gli intagliatori, i marmorari, gli ottanari, i pipernieri, i fabbri, tutti insieme nella compiuta definizione di spazio architettonico.

E quindi ne conseguì uno scenario urbano mutato profondamente, in cui le forme esterne delle chiese vennero connesse all’orografia terrestre del luoghi, incantati dal verde consistente delle colline, che spesso le costruzioni avevano alle loro spalle, interpretato come sfondo conclusivo per le ampie terrazze ripopolate di busti, colonne, maioliche, ringhiere ed il fuoco visivo talvolta interrotto dai lanternini delle nuove chiese costruite.

Questo per quanto concerne l’architettura esterna dei luoghi, mentre al suo interno la veste architettonica e figurativa fu rinvigorita di nuova espressione grazie all’uso massivo del marmo policromo, grate lignee, cancelli in ottone, acquasantiere e soprattutto per quel periodo si segnalano sempre nuove ruote claustrali. Lo studioso Pane sintetizza questo fervido periodo dell’architettura sacra a Napoli, come un momento di gioiosa freschezza talvolta con accenti scherzosi, specie laddove le foglie e la frutta sostituiranno le ambrogiette maiolicate del Quattro e Cinquecento, apparendo nel proposito di rilanciare il rapporto nuovo dell’architettura con la natura, riqualificando anche le vecchie superfici contro la sintassi tettonica dei secoli che le hanno precedute.

Accanto agli architetti di notevole fama, tipo Domenico Antonio Vaccaro, si avvicineranno al gusto nuovo dell’architettura connessa ai territori tutti gli altri giovani e giovanissimi architetti di scuola solimeniana, già abbastanza sedotti anche loro a lor volta dai principi dello stile rocaille, rivista con esemplare magnificenza per le architetture effimere, le cuccagne costruite per le feste popolari, distrutte, altre andate perdute, forse bruciate, ne restano i ricordi nelle sole vedute ed incisioni di fine Settecento.

La maniera di costruire fabbriche religiose incastrate nella naturalezza dei luoghi deve collocarsi negli anni immediatamente successivi alla venuta in città di Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli, i quali, assieme al Gioffredo caratterizzeranno inversamente l’architettura di città a quegli accenti rigorosi del fondamentalismo aulico, in strettissimo legame con l’architettura romana. Di contro quindi, gli architetti minori potranno cimentarsi anche loro nelle vivide espressioni delle nuove tendenze di quel che fu definito il maturo Settecento; son questi, per ricordarne alcuni: Gian Battista Nauclerio, Ignazio di Nardo, Giuseppe Pollio, Gaetano Barba, Ignazio Stile, Camillo Leonti, Giambattista Broggia, Gennaro Papa, Francesco Scarola, Vincenzo Lamberti e Giuseppe Astarita2.

Ma più precisamente, Pietro Napoli Signorelli nel suo saggio puntualizza che, ad Ignazio di Nardo, vanno assegnati i lavori per la scodella della chiesa del Gesù Nuovo, (1774), il Banco di Sant’Eligio al Mercato, (1781) ed il restauro della cupola della cappella San Gennaro al Duomo di Napoli, (1787); a Giuseppe Pollio va la chiesetta di San Pasquale a Chiaia ed una grata presso la chiesa di San Gregorio Armeno, (1756); a Gaetano Barba va riconosciuta la brillante collaborazione alla chiesa della Trinità dei Pellegrini alla Pignasecca, (1791); a Giambattista Broggia va riconosciuto il restauro ex novo del monastero e chiesa di San Potito presso l’omonimo colle, (1789); a Gennaro Papa va assegnato il lavoro di ricostruzione secondo questo stile della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo a  Spaccanapoli, (1758); a Francesco Scarola va riconosciuto il rifacimento della facciata del Teatro dei Fiorentini, (1779), a Camillo Leonti quello di San Ferdinando, (1791) e sempre a questo autore va anche assegnato il rifacimento dell’altare maggiore a San Giorgio ai Mannesi;, a questi nomi debbono aggiungersi quelli di Tommaso Senese per il suo egregio lavoro alla facciata del Duomo di Napoli poi andato rifatto un’altra volta secondo altri schemi, ed ancora: Giovanni del Gaizo e Vincenzo Buonocore per aver messo mano, secondo lo stile rocaille alla monumentale chiesa di Santa Chiara, in Via Benedetto Croce, prima che questa fosse letteralmente buttata a terra dai bombardamenti alleati.

Infine, per quanto riguarda l’attivissimo Giambattista Nauclerio, si ricorda di lui, l’opera di restauro alla chiesa di Santa Maria del Caravaggio a piazza Dante, (inizi del 1730), cancellata e balaustra ai Santi Severino e Sossio, (1737), la facciata della minutissima chiesa di San Francesco delle Monache, (1751), la chiesa delle Cappuccinelle a Pontecorvo, ed alla chiesa di Santa Maria della Concordia ai Quartieri Spagnoli.

Ma di poco successivo a quell’epoca ed a questo stile vi fu un altro gruppo di eccellenti figuristi architetti si fecero strada ottenendo successi di straordinaria rilevanza architettonica, secondo il gusto ancora proclive al classicismo della prima metà del Settecento e non poco esaminato alla luce della naturalezza dei luoghi: Carlo Vanvitelli prima di tutti, seguono Pompeo Schiantarelli, Francesco Sicuro per il Teatro Mercadante e piazza Mercato, Francesco Collecini e Leopoldo Laperuta per la basilica di San Francesco di Paola a piazza Plebiscito.

Napoli quindi come un campo di sperimentazione architettonica vastissimo, compreso tra la valle e le colline, che nel corso di cento anni, tra il 1699 ed il 1800, comprende culture eterogenee estratte dai filoni legati all’arte suprema di Francesco Solimena, alle esemplificazioni di Domenico Antonio Vaccaro ed allo spessore culturale di Ferdinando Sanfelice.
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Spazio note

(1)Arnaldo Venditti Napoli Nobilissima: rivista di topografia ed arte napoletana. Napoli Nobilissima NAP0632510 Chiesa Sant’Anna a Portacapuana . Collocazione BNN Sala dei Periodici. Per. Ital. 355 anni 1961/1963.
(2) Pietro Napoli Signorelli, Gli artisti napoletani della seconda metà del secolo XVIII,(dall’opera inedita su: Il Regno di Ferdinando IV), con note di G. Ceci, Napoli Nobilissima, n.s., II, 1921, pagina 78 e seguenti.