Eremo dei Camaldoli Napoli

test Il motivo per cui la collina dei Camaldoli, nel paesaggio agreste delle colline di Napoli abbia assunto questo nome è la presenza sulla sua sommità di un eremo appartenuto all'antica congregazione dei monaci di Monte Corona1(2).

Questi furono monaci dediti all'eremitismo secondo le regole dettate da San Romualdo, padre fondatore di una comunità aretina detta, Camaldoli, là dove si volle rendere attiva la proposta spirituale di associare alla vita lavorativa di stampo benedettino la pratica contemplativa tipica degli eremiti.

Camaldoli è l'unico paesino laico in Italia e nel mondo cristiano ad esser stato costruito attorno ad un monastero con annesso un'eremo. Quello di Napoli quindi è solo un'esperienza spirituale di estrazione camaldolese, e che la collina abbia ormai assunto poi la toponomastica attuale lo si deve all'uso popolare di gergare su ogni cosa, anche sulla possibilità di rinominare un luogo.
All'eremo napoletano dei Camaldoli, fino alla metà degli anni Novanta del Novecento ci si arrivava comodamente da piazzetta Arenella imboccando il rione Montedonzelli, e su su per Cappella Cangiani, Guantai e Nazareth all'Orsolone; dall'altro versante collinare l'eremo era raggiungibile per il valico di Antignano, il Ponte Pigna ed un breve tratto di rupe boscosa.


Prima della denominazione di Camaldoli, la collina si chiamava: Monte Prospetto.

Giustificato ovviamente dal contenuto panoramico godibile sempre dalla sommità della vetta, e nel particolare tutto quanto già descritto da Giuseppe Paradiso.

  • Ed ovvero tutta la piana del lido tirrenico, le isole del Golfo, quindi Capri, Ischia e Procida, la zona delle fumarole dei Campi Flegrei, il lago di Agnano ed infine le distese di Terra di Lavoro. A circa 500 metri dal livello del mare, quindi, all'apice della collina, nel V secolo d.C., venne eretta per opera pia di Gaudioso vescovo, una chiesetta dedicata al Santissimo Salvatore, sia per la speciale devozione al carisma cristiano della Salvezza insita nel nome Salvatore, sia per devota riconoscenza al Salvatore per esser stato lo stesso fondatore l'unico degli scampati dalla persecuzione di Genserico. Per altro particolare riguardo della popolazione autoctona, la chiesetta venne rinominata, chiesa del Santissimo Salvatore al Prospetto. All'indomani del decesso del vescovo Gaudioso, la piccola chiesetta restò per lungo tempo senza custode, senza un sacerdote per l'officiatura di culto e quindi per molti e molti anni abbandonata. Fino a quando, nel 1585, Giovan Battista Crispo non la riprese dalla sua totale distruzione, ottenendone, in forza della breve di Papa Sisto V, di riabilitarla all'uso di chiesetta organica al nuovo romitorio dei padri eremiti, dell'Ordine di San Benedetto venuti dal Monte Corona costruito letteralmente sul suo fianco. Con l'arrivo in zona dei conti D'Avalos, rispettivamente nella figura di Carlo e Giovani, i camaldolesi ” … poterono per grazia di Dio” riattare la vecchia chiesa ed ingrandirla fino a costruirci attorno un primo impianto cenobitico di tipo monasteriale, che denominarono: Santa Maria Scala Coeli. Con l'accrescere delle attribuzioni ed elargizioni il monastero si ingrandiva sempre di più fino a divenire il primo dell'Italia Meridionale appartenente a quest'Ordine. Divenne poi, nel 1667, per decreto di Alessandro VII, il noviziato di casa camaldoli per il circondario di Napoli e provincia. Nel 1792, dai disegni dell'architetto Domenico Fontana, il medesimo autore della sistemazione di via Chiaia, la facciata di palazzo Reale a Piazza Plebiscito e del largo dei Girolamini lungo il tratto centrale del decumano superiore, si ebbero spunti progressisti per un recupero dell'antica architettura benedettina, così da poter restaurare ancora una volta la chiesa ed ornarla di marmi pregiati, tagliati sul posto e sul posto intarsiati ed alcune pitture realizzate per mano di Angelo Mozzillo. Il monastero fu soppresso durante il governo napoletano di Gioacchino Murat, e riaperto nuovamente nel periodo della restaurazione del 1820; in quell'anno i Benedettini camaldolesi rientrarono in possesso del manufatto solo di una parte di esso, mentre per il restante si dovette attendere molto più a lungo, in quanto, capitò che, durante l'assedio francese, parte dell'immobile fu attribuito alla famiglia Ricciardi, di cui, uno dei suoi componenti addirittura insignito del titolo di conte dei Camaldoli. Solo nel 1885, e solo per mediazione del cardinal Guglielmo Sanfelice e del signor Beniamino Vivenzio, i padri del Monte Corona riebbero in uso ed in usufrutto perpetuo tutto quanto lo stabile di fatto già di loro proprietà.

Chiesa del Santo Salvatore al Prospetto.

La chiesa del Salvatore al Prospetto è anticipata da un piazzale, al quale, ci si arriva per un corto rampato di scale subito dopo un breve portico oltre la porta d'ingresso all'eremo.

  • Sulla porta della medesima chiesa di legge scritto: JOANNI AVALOS DE ARAGONA ALPHONSI MARCHIONI VASTO FILIO FUNDATORI EREMITAE CAMALDULENSIS GRATO ANIMO ERGO P.P. MDLXXXV, in riferimento ai quei D'Avalos di cui si è detto. L'impianto interno alla chiesa è a navata unica, piccola dalle dimensioni considerate congrue all'austerità del luogo e alla possibilità di dover coprire una capienza minima e dunque architettonicamente anche priva di naturale crociera, ma coperta da una volta a sesto regolare, divisa in tre sezioni ideali da una cornice in stucco che ne delimita le forme., e al cui centro, una tavola istoriata da Angelo Mozzillo, ritrae la Gloria di San Romualdo ivi collocata in seguito ai lavori di restauro praticati nel 1792. Sempre di Angelo Mozzillo sono i dipinti che ritraggono i vari fondatori delle varie congregazioni di origini benedettine incassati nelle dieci lunette delle finestre laterali alla navatella. Nonostante le indicazioni contenute nella Regola di quest'Ordine per tutti coloro che ne professarono voto semplice o solenne, di abitare, cioè, spazi di architettura essenziale, l'interno della chiesa comunque non è stato trascurato d'esser organizzato da bei marmi commessi e di un ricco altare maggiore che richiama su di sé l'attenzione per esser il pezzo originario del 1597, almeno per quanto riguarda la tavola della mensa, stante quanto indicato dall'iscrizione. Ai piedi dell'altare di legge quanto riportato: in ricordo del nobilissimo benefattore. La sequela dei dipinti affissi al muro parte dalla porta centrale sopra la quale vi è stato alloggiato il quadro di Massimo Stanzione, ritraente, La Cena, mentre sulle due pile dell'acqua, si osservano i lavori pittorici dello spagnolo Berales, raffiguranti i santi Bonifacio e Pier Damiani. Altro spazio di enorme interesse è il coro lingeo alle spalle dell'altare maggiore e da questo separato da una parete che comunque ne garantisce l'ingresso dalle due porte lateraili. All'interno del coro vi sono altri dipinti sia del Mozzillo che dell'Amendola; nell'area del coro, tra gli stalli di radice d'ulivo, tutto quanti secellati a legno nel 1792, il quadro centrale alla parete, tra l'altro l'unico superstite del restauro proprio del 1792, è attribuito da alcuni studiosi a Marco Pino da Siena, da altri invece ad Andrea da Salerno. La navatella è accompagnata da sei per lato dentro le quali si conservano dipinti degli artisti Rodrigo, Santafede, Borghese e due pezzi di Luca Giordano ritraenti uno la Sacra Famiglia e l'altro, una Sant'Anna con San Gioacchino e la Vergine. A destra dell'altare, non certo un caso, vi è la porta che accompagna alla sacrestia della chiesa, suggestivamente impreziosita dalle pareti ricoperti di spalliere in legno d'Ulivo, segno della nutrita convivialità dei monaci prima della cacciata francese col territorio circostante e con la natura cedua dei boschi circostanti l'apice del colle. E di fronte alla sacrestia vi è l'ingresso al capitolo. Dal suo vestibolo nella direzione dello spazio profondo oltre il piazzale d'ingresso, nascosto dalle mura dell'eremo, tre viali di si dispongono tre viali lungo i tre lati di una sorta di chiostro occupato da uno spazio sistemato a giardino; i viali sono costeggiati da celle, tutte quante alla stessa maniera edificate, destinate alla preghiera grazie ad una cappelletta al suo interno, dunque anche al riposo per la notte ed un angolo studio permette al cellante di dedicarsi alla teologia. Alle spalle della chiesa, come in una qualsiasi delle certose camaldolesi, si sviluppano le officine ed il refettorio comune. Vi sono anche delle sale comuni dedicate alla ricreazione, ed in una di queste affissa al muro vi è la lapide che ricorda l'incontro tra l'imperatore di Germania Guglielmo II e Guglielmo Sanfelice, cardinale di Santa Romana Chiesa, nonché vescovo metropolita della città di Napoli. Ai monaci è sempre stata data la possibilità anche di godere della vista sul golfo e sul territorio sottostante anche in funzione della sanezza che queste alture offrono in termini di recupero terapeutico, grazie ad un belvedere sistemato sul lato opposto al chiostro appena citato, un belvedere, è buono ricordarlo, realizzato con sedili in pietra e diversi ripiani.

Camaldolilli.

Si intende per Camaldolilli la struttura immobiliare che affianca l'eremo, usata a partire già dal 1668 come convalescenziario dei padri Camaldolesi.

  • Nonostante sia da sempre stata decantata l'altura dei Camaldoli presentò alla fine degli anni Settanta del Seicento, il problema inconvenevole della pestilente aria che proveniva dal lago di Agnano, dove si produceva il lino. Per questa nota ragione molti dei frati direttamente esposti all'insalubrità della lavorazione della canapa in macerazione si ammalavano, fatto per cui, si rese necessaria attrezzare la zona di un'infermeria adeguata al ricovero dei monaci. Questa struttura fu rinominata dai residenti col nome di Camaldolilli. All'infermeria dei monaci venne adeguato anche l'uso di un bosco salubre, riconosciuto come la selva camaldolina, una sorta di sfruttamento della pendenza del monte, ammantato in quel lato da robusti alberi di Castagno, Noci, Lecci, Pini e Querce secolari. Tuttavia, casolare di montagna usato come ambiente per la lungodegenza religiosa e boschetto tutto intorno furono gli spazi sottratti all'Ordine durante la fase di dominazione francese e mai più restituiti, neppure negli anni della restaurazione del 1820 a nome di Ferdinando I. Quindi la proprietà dei luoghi sommariamente rimasti nella disponibilità di eventuali eremiti furono per così dire tenuti curati solo per scopi agricoli dai componenti della famiglia della baronessa Campolongo Scibilia sopraggiunta in un secondo momento ai fattori della famiglia Marasca, già presenti sul medesimo territorio da essi stessi occupato. Fino all'era di internet, dei Camaldolilli, l'unico che ne abbia scritto qualcosa è Giuseppe Paradiso, qui di seguito, riassunto. Il Paradiso inizia la descrizione dell'eremo dal portale che definisce diroccato, al quale, son state fatte mancare pure le imposte. Quello che lui chiama, convalenscenziario, quindici camerette che un tempo funsero da ospizio per monaci degenti, e al tempo della descrizione invece erano tutte occupate da contadini e lavandaie, dice di trovarlo eretto poco oltre un boschetto di noci, non prima e non senza aver superato un doppio rampante di scale. L'eremo, al suo interno quasi incapsulata all'edificio, ma con ingresso separato, ha una piccola chiesetta a navata unica, dedicata all'Addolorata, da sempre di patronato Ricciardi. Paradiso dice di aver trovato in chiesa tre quadri, uno ritrarente San Romualdo ed altri due che ritraevano un'Addolarata. In sacrestia niente più che un armadio senza porte, che conservava materiale per la liturgia della santa messa. Dietro l'altare a stare a leggere l'iscrizione si sa che vi riposano i resti di Giulio Ricciardi, conte dei Camaldoli, senatore del Regno delle Due Sicilie, nonché cavaliere emerito dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio; di fronte vi è la tomba di Anna Maria De Adlectis, sua moglie. Della famiglia Ricciardi in quell'ambiente, secondo le dichiarazioni rese dal Paradiso proprio in questa descrizione restava come segno eloquente del loro potere lo stemma a terra, sul pavimento dietro l'altare con la scritta ETIAM SI. OMNES EGO NON.


Spazio note

(1) Fonti per questo argomento vai ai questa nota nota
(2) Sulla storia generale dell’Ordine Camaldolese cfr. Thomas Matus, Alle origini di Camaldoli : San Romualdo e i cinque fratelli, 1996. Sull’Eremo napoletano: Ricordo dell'Eremo di Camaldoli di Napoli, Terni 1911; Egidio Noviello, Appunti sulla storia dei Camaldoli di Napoli, Portici 1973.