Acquedotto della Bolla

È detto Acquedotto della Bolla, il sistema dei collettori fognari ottenuti grazie alla coesistenza di strutture architettoniche realizzate in ambienti scavati sotto il monte in epoca greco-romana, a sfruttamento della pendenza del sottosuolo della città di Napoli declive dalla zona di Caponapoli fino allo sbocco a mare localizzato in zona Chiatamone.
Tutta quanta la struttura, sia la parte usata come rifugi antiaerei, sia quella non utilizzata fu nuovamente scoperta soltanto nel 1966 dagli speleologi del C.S.M., Fabio Collini e Lucio Bartoli.

La struttura radiale dell'acquedotto in questa zona fu realmente descritta durante i sopralluoghi effettuati dagli anzidetti ricercatori speleologi per un rilievo nei pressi della parete sud del tunnel borbonico, che collega palazzo Reale al borgo della Cavallerizza a Chiaia passando sotto Pizzofalcone ed il Pallonetto a Santa Lucia.

È comune accordo degli studiosi del settore che tutte le parti dell'acquedotto detto della Bolla hanno sempre svolto la funzione di fornire acqua in superficie non senza averla prima raccolta in pozzi che nel tempo, alcuni, hanno raggiunto dimensioni grandi quanto delle cisterne.

Di queste, quelle comprese tra piazza Plebiscito piazzetta Demetrio Salazar, via Solitaria e via Nuova Pizzofalcone specie in epoche relative al governo aragonese furono molto ampliate superando di gran lunga le dimensioni imposte alle origini fondendosi per tanto in lunghi rami intersecati tutti tra loro. Inversamente, le cisterne per la raccolta d'acqua divenute poi delle cave sommerse, quelle tra piazza del Plebiscito, piazzetta Carolina, via Gennaro Serra e via Nuova Pizzofalcone ebbero anche funzione di rifugio antiaereo così attrezzate durante i terribili bombardamenti alleati del 1943.


Le cisterne della Prefettura e di via del Grottone.

Il suo ingresso era da piazzetta Carolina grazie ad una scala a chiocciola in ferro battuto che per diversi piani sotto smontava fino alla fine del tunnel Borbonico.

  • Ancora oggi, questo posto, è classificato come ricovero della Prefettura, proprio per il fatto di esser in parte sviluppato al di sotto del piano basamentale del palazzo della Prefettura. Il ricercatore, studioso, speleologo, autore della nuova mappa documentale del sottosuolo di Napoli, nel descrivere parte dell'acquedotto della Bolla, al punto del ricovero della Prefettura, ricorda di aver incontrato durante il rilevo oltre alla cucina con le mattonelle maiolicate, anche i bagni con tutti i servizi, ovviamente, compresa pure l'acqua calda, un quadro elettrico montato alla parete vicino alla porta di ingresso, e, addirittura, in due camere, l'una contigua all'altra, intersecate di modo da formare una L, vi trovò a terra un pavimento ricoperto di parquet, in alterato di stato di abbandono. L'aggancio degli ambienti del ricovero della Prefettura alla scala a chiocciola che ne permetteva il passaggio in superifice non è diretto; è altresì invece garantito da una serie di quindici gradini naturalmente scavati nella materia tufacea nativa di questo luogo. Infine, gran parte dello spazio di ricovero della Prefettura, al momento dell'ispezione operata dallo speleologo si presentava occupata da grandi quantità di calcestruzzo sparato durante la costruzione della L.T. R., la Linea Tranviaria Rapida. Un altro pozzo sotterraneo ricavato dallo spazio sotterraneo dell'Acquedotto della Bolla e trattato come rifugio antiaereo è stato localizzato alle spalle della basilica di San Francesco di Paola, diametralmente opposto nella sistemazione assiale con quello della Prefettura comunque collegato da un budello. Per questo ricovero sono stati trovati due accessi in superficie: il primo in vico del Grottone e l'altro al viale Calascione ed uno sotto terra, praticamente una sorta di valvola di comunicazione col tunnel borbonico, all'epoca della scoperta ad impedirne l'accesso vi erano solo delle carcasse di automobili. In realtà al di sotto della superficie di via del Grottone, alle spalle della basilica di San Francesco di Paola non vi sarebbe una sola cisterna d'acqua, ma più di una, tutte gravitanti questo accesso e che porterebbero ad un lungo cunicolo allargato a mo' di corridoio, servendo sia sulla parete di destra che di sinistra altre cisterne per la raccolta d'acqua, molte delle quali, raccolsero per lungo tempo tutt'altro materiale piuttosto che acqua, tipo ad esempio calcinacci scaricati dall'alto, resti di conchiglie e scarti di cammei. Fino a quando il piccolo tunnel sotterraneo non si biforca portando a destra in una zona del ricovero assolutamente non inquinata da fenomeni simili, mentre dal lato di sinistra si va in una cisterna di enormi dimensioni, dentro la quale, vi sono altri due pozzi per la raccolta d'acqua. E d a quest'altra cavità, per mezzo di un incastro di scala in muratura con una scavata nel tufo è possibile riemergere in superficie e guadagnare l'uscita in un cortile anonimo, in un anonimo palazzo in via Calascione.

Il lago sommerso ed il ponte sepolto sotto la montagna.

Le dimensioni effettive dell'acquedotto rendono l'idea di cosa effettivamente debba essersi trattato; il racconto reso dallo stesso speleologo del 1966 chiarisce il percorso da farsi per completarlo. 

  • Ed ovviamente, questo dovrebbe esser frequentato da personale qualificato, addestrato, non claustrofobico, in gruppo, con attrezzatura adatta, e da personale interessato alla ricerca e alla speleologia. Sono luoghi sotterranei, calati nel buio totale, con un tasso di umidità superiore al 90%, e percorsi infiltrati da buche, pozzi, avvallamenti, pendii, ed i cunicoli quando praticabili sono alti appena 2 metri, larghi mediamente meno di 50 cm. È quindi esclusa categoricamente la possibilità di poter fruire di questi spazi al fine di realizzare escursioni turistiche o visite guidate caratteristiche. Nel racconto del 1966 si parla di un momento in cui, ricercatori speleologi, all'altezza del ricovero della Prefettura, avendo oltrepassato il cunicolo che porta nella direzione del monte, giunti ad uno sbarramento rappresentato da un muro, procurando per il gruppo un foro in questo muro per poter guadagnare un passaggio laterale si ritrovarono invece a picco su un'altra cavità pregna d'acqua, laconicamente detto, lago sommerso con una china di detriti a far da sponda. Gli esploratori del sottosuolo abbandonarono il proposito di proseguire oltre poiché impossibilitati dalla profondità del lago e dalla scarsa visibilità nella sponda opposta e quindi abbandonarono anche la postazione provvisoria ripiegando nuovamente sul cunicolo dal quale erano giunti. Nel ritornare indietro gli stessi si procurarono un altro accesso considerato più facile, ovvero, ai piedi di un ponte sommerso, un vero e proprio ponte a due arcate, che sorreggeva un camminamento a scorrimento veloce per le carrozze, fatto costruire dai Borbone affinchè sua maestà ed il suo seguito sotto terra, potessero comodamente recarsi da palazzo Reale al rione della Cavallerizza utilizzando gli antri naturali della città senza interferire con essi, di qui la precisazione di un ponte in questo posto, una struttura architettonica alta fino a due metri con funzione di guado per la cavità sotto di sé usata per la raccolta d'acqua. I ricercatori hanno potuto altresì rilevare che sul ponte sono stati attrezzati durante il periodo bellico del 1943, ed ivi rimasti senza che alcuno provvedesse a rimuoverli, attrezzatura per i servizi igienici offerti agli utenti che frequentavano i vicini rifugi antiaerei, mentre invece, proprio a ridosso del primo pilone del ponte, un muro, alto circa un metro, proteggeva un baratro sottostante profondo almeno 10 metri. Oltre questa posizione subito dopo il ponte, spettrale, due anse si incrociano tra loro formando un angolo di 90°; l'ansa di sud conduce nuovamente al ricovero antiaereo di vico del Grottone, mentre l'ansa di nord, a parte due sole diramazioni che conducono entrambe verso piccole cisterne, porta ad un luogo che nel momento del sopralluogo speleologico si presentava di grandi dimensioni volumetriche ma pieno di macerie. È suggestivo leggere sui documenti del racconto speleologico che ad un certo punto del camminamento i ricercatori si son trovati di fronte ad un muro, dritto e liscio, evidente opera d'uomo, un muro che non esitarono di definirlo, ”Muro di Mezzo”, una sorta di sbarramento per l'arrivo dell'acqua, che, a seconda delle necessita e per mezzo di un foro esistente alla base dello stesso muro, si regola il deflusso dell'acqua; perciò dunque, i ricercatori scrissero, che a foro tappato l'acqua sarebbe scorsa seguendo la forza ostativa del muro medesimo, mentre a foro libero dal tappo, l'acqua avrebbe riempito cisterne che si trovano alla fine di alcuni cunicoli che stanno giusto nascosti dietro al ”Muro di Mezzo”.

I muri di mezzo gentili ed i cancelli per suddividere i quartieri dell'acqua.

I nobili, i ricchi, quelli più facoltosi, col tempo sfruttarono la raccolta dell'acqua che scorreva in sottosuolo ed ognuno a modo proprio ebbe il pozzaro di fiducia per la fornitura.

  • Col termine muri di mezzo gentili gli speleologi autori del racconto sulla Napoli Sotterranea del 1966 hanno inteso tutte quelle pareti che essi stessi hanno incrociato sul loro percorso e che hanno di fatto rappresentato un'ulteriore difficoltà nel rilievo topografico del condotto fognario. Non solo muri di mezzo gentili, nel senso di costruiti da chi se lo potè permettere, e di fatto molti di questi risultarono assenti sulla mappatura precedente, quindi in un certo senso, abusivi, ma anche, straordinariamente incredibile, cancelli, per sbarrare il passo ai pozzari delle altre famiglie, che non di rado, ognuno per sé andava nella cisterna dell'altro a fornirsi d'acqua nel caso la sua si fosse prosciugata. Questa storia dei muri per frenare l'avanzata dell'acqua e dei cancelli per arrestare la concorrenza sul prodotto, ha contribuito grandemente a definire l'intricato disegno in sottosuolo dei cunicoli che assieme formano una sorta di città sotto la città. Il primo ed anche l'ultimo quadrivio sotterraneo si trova effettivamente nell'angolo di destra sotto la basilica di San Francesco di Paola; il suo ramo di sud in basso, un cunicolo basso e stretto, proseguendo poco oltre un incrocio proveniente da due cisterne, finisce sotto via Egiziaca a Pizzofalcone fino a camminare tangente un vecchio collettore fognario abbandonato. Questo cunicolo poi a sua volta, nel punto di tangenza minima è occupata da una parete in muratura, anche questa opera d'uomo, che al momento del sopralluogo mostrava un foro per il cedimento di alcuni pezzi di conci, foro dal quale era visibilissimo il condotto fognario che accompagnava. L'interesse per questo cunicolo sta nel fatto che esso partendo da un quadrivio porta alla fine ad un trivio, non prima e non senza aver però superato un'ansa di 90°. Il ramo di sinistra del trivio sempre dopo aver superato un'altra ansa di 90° conduce ancora ad un altro trivio, da cui, il cunicolo di sinistra conduce verso un fondo di cisterna che di tutte quelle presenti, questa mostra la volta in calcestruzzo. Ultima curiosità rilevata dal sopralluogo speleologico fu la cisterna sotto il palazzo ad angolo Supportico Astuti. Si presentò subito con una caratteristica che la rese subito notevole; era piena d'acqua limpidissima, al punto che sul fondo della cisterna, profonda circa due metri, si vedevano chiaramente una decina di otri, le cosiddette, ”mummore”, anforette di creta per la conserva dell'olio, del vino e anche solo di acqua. Si trovavano sul fondo poiché era abitudine dei commercianti sul posto calarle con delle corde sul fondo del pozzo per tenere il prodotto in una condizione di fresco ottimale. Le mummore finirono in fondo al pozzo perchè evidentemente di tanto si rompeva la corda che serviva a calarle ed issarle dal fondo. I primi ad osservare gli oggetti anzidetti desiderosi di volerne recuperare i pezzi e studiarne la fattura per datarle risolsero di ritornarci con l'ausilio dei Vigili del Fuoco. Cosa che accadde, ma il racconto dice che al ritorno vi trovarono acqua torbida. Si decise quindi un secondo intervento che però non ebbe mai luogo e, precisa il racconto, che lo spesso speleologo del 1966., a dieci anni di distanza ha saputo che colleghi più giovani ritornarono sul posto per recuperare le mummere, non trovandoci però né più l'acqua, né più le stesse mummare.